Il primo luglio è entrata in vigore la nuova aliquota per la tassazione, a titolo definitivo, dei redditi da capitale. La percentuale di imposta è salita dal 20 al 26% e colpisce un universo di redditi molto disomogeneo: interessi sui depositi bancari; cedole sulle obbligazioni societarie; plusvalenze da negoziazione di titoli; dividendi distribuiti dalle società.
Fino a non molto tempo fa la cedolare secca, cioè l’imposta sostituiva su questa categoria di proventi, era pari al 12,50%. Poi il governo Monti innalzò l’aliquota al 20%, che ora più che raddoppia fino al 26%.
Per i dividendi percepiti dagli azionisti non qualificati, quindi la totalità di quelli che investono a Piazza Affari, si tratta di una penalizzazione tutt’altro che marginale. Ai tempi della prima riforma tributaria, per evitare la doppia tassazione dei dividendi, cioè il fatto che l’investitore pagasse due volte le tasse sullo stesso reddito in capo all’azienda di cui era socio con l’Irpeg eppoi con la sua Irpef, era stato introdotto il meccanismo del credito d’imposta. In pratica, sull’ammontare lordo dei dividendi incassato dall’investitore si applicava una percentuale – prima del 58,73% poi sceso al 51,51% – che consentiva di recuperare quanto pagato, già sullo stesso reddito, dalla società. Con l’introduzione dell’Ires il credito di imposta sui dividendi venne eliminato e ogni forma di tassazione spostata in capo all’impresa generatrice del reddito. Fino a quando la cedolare secca sui dividendi è stata del 12,50% il regime sostitutivo, anche se spesso meno favorevole all’investitore, poteva comunque trovare una sua razionalità nella compiuta semplificazione del sistema. Oggi, con l’aliquota più che raddoppiata, il regime di tassazione dei dividendi delle società quotate in borsa o delle società di capitali in genere appare aver riesumato la vecchia problematica della doppia tassazione: per intero, con l’Ires pari a circa il 28%, in capo all’impresa e per il 26% in capo all’azionista che incassa il dividendo. In pratica su 100 euro di utile lordo si paga 28 di Ires eppoi, su quello che rimane, 72 euro, ancora il 26%, cioè circa 19 euro, a titolo di imposta sui redditi di capitale delle persone fisiche. Significa che, su 100 euro di utili lordi circa 47 se ne vanno in tasse: neppure i contribuenti dell’ultimo scaglione Irpef sono più schermati dalla doppia tassazione.
Soprattutto si tratta di una novità che penalizza le imprese della tecnologia abituate da sempre a distribuire ricchi dividendi (storici sono rimasti quelli miliardari di Microsoft e di Apple) ai propri azionisti. E anche le startup di successo che, una volta affermatesi, per puntare alla borsa devono proporre piani concreti di remunerazione annua del capitale ai propri investitori.