Micron, “in Italia le attività di valore”

Raimondo Castellucci spiega il piano dell’azienda a seguito dell’accordo con governo e sindacati. Le memorie non volatili il “core” della produzione

Pubblicato il 09 Giu 2014

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Micron si lascia alle spalle le polemiche sulla ristrutturazione e guarda al proprio futuro in Italia. Puntando sulle competenze, sul valore aggiunto della progettazione, del design e delle tecnologie emergenti. Dopo il difficile accordo con i sindacati, la multinazionale statunitense è determinata a non voler abbandonare l’Italia. A sottolinearlo è Raimondo Castellucci, Senior director of general administration di Micron Semiconductor Italia, di fatto il numero uno dell’azienda nel nostro Paese.

Castellucci, l’accordo con i sindacati e avallato da Mise, ministero del Lavoro e Governo è fatto. E ora?

La trattativa è stata complessa. Abbiamo accettato le regole e modulato gli obiettivi aziendali sulle rinnovate necessità. E le misure previste dall’accordo ci consentiranno di trovare una soluzione ottimale per tutti.

Per settimane è rimbalzata la domanda: “Perché un’azienda che fa utili decide di licenziare?”. Posso porgliela oggi?

Micron lavora nel campo dei semiconduttori, nel settore delle memorie: un mercato estremamente competitivo sia per i costi di produzione sia per il continuo ribasso dei prezzi di vendita, nell’ordine del 70-80% l’anno. I costi devono seguire i prezzi di vendita, con altissimi investimenti in ricerca e sviluppo, che si devono recuperare in tempi molto brevi. Oggi le performance finanziarie sono buone, ma veniamo da due anni di perdite anche significative, e le prestazioni potrebbero cambiare velocemente: le nostre strategie hanno un orizzonte di un paio d’anni, su piani operativi di un anno e target di sei mesi. Inoltre questo è un settore che negli ultimi anni si è molto consolidato: fino a una decina di anni fa c’erano circa 40 produttori di memorie al mondo, oggi ne sono rimasti quattro. Ogni volta che si fa un’acquisizione bisogna riconsiderare il proprio assetto, anche per la distribuzione di risorse e investimenti, e da qui nasce la necessità delle ristrutturazioni, la maggior parte delle quali finora hanno riguardato gli Usa.

Come risponde a chi vi accusa di una strategia votata ad abbandonare l’Italia?

Dico loro che non è così. Siamo in Italia dal 1998, quando Micron acquisì la divisione memorie di Texas Instruments nel sito di Avezzano. Negli ultimi anni la maggior parte del fatturato e dei clienti sulle memorie si è spostato in Asia, dove realizziamo circa il 70% del nostro fatturato: il supporto al cliente deve essere dove i clienti risiedono e il supporto alla produzione dove si produce. In Italia alcune attività non sono dove la catena del valore richiede, mentre dobbiamo focalizzarci sulle attività che ha senso consolidare.

Quali sono oggi i piani di Micron per le attività italiane?

Manterremo qui attività ad alto valore aggiunto per il capitale umano, nelle aree di progettazione e design di prodotto e di tecnologia, in particolare nelle memorie non volatili: un settore dove l’approccio all’innovazione dal punto di vista tecnico è elemento di successo. Sono funzioni a monte della catena del valore, che non necessariamente devono essere vicino al cliente finale o alla capacità produttiva installata. Manterremo una presenza significativa nello sviluppo delle tecnologie emergenti, che non sono ancora in fase di industrializzazione, e su cui si può lavorare a distanza rispetto alla produzione. Gli investimenti riguarderanno il capitale umano ed alcuni asset, come i laboratori a supporto dell’attività di ingegneria. In Italia si è anche sviluppata una buona competenza sui sistemi di supporto per la produzione, i sistemi di Computing Integrated Manufacturing, dove abbiamo un gruppo di circa 80 persone sullo sviluppo software che l’azienda vuole mantenere per la sua qualità. Infine l’Italia sta dando un grande contributo nelle managed memories e nello sviluppo di eMMC,embedded Multi Media Card, sistemi complessi di memoria utilizzati ad esempio nell’automotive, molto sviluppato in Europa, nel medicale, nell’industrial.

Quale può essere la ricetta per rilanciare il settore in Europa?

Nel nostro campo uno dei main driver dal punto di vista dei costi sono gli investimenti in capacità produttiva. Uno stabilimento di semiconduttori costa tra i quattro e i cinque miliardi di dollari. Alla ricerca e sviluppo destiniamo il 10-15% del fatturato ogni anno, 1,5-2 miliardi di dollari. Considerata la scala, non è facile stanziare eventuali contributi pubblici. Riportare in Europa una parte della produzione sarebbe molto difficile, ma non impossibile se si lavorasse su politiche di attrattività e di consolidamento di ciò che si è riusciti a mantenere, agendo in primo luogo sulle politiche fiscali e sulla semplificazione delle procedure: basti pensare che la costruzione di un nuovo stabilimento richiede un investimento da 4-5 miliardi di dollari e che, dal momento in cui partono gli scavi al momento in cui c’è il primo output di produzione, non devono passare più di 12 mesi. Inoltre, l’industria dei semiconduttori è un’industria energivora, e quindi far leva sul costo dell’energia potrebbe essere utile. Nella Ue dobbiamo tener conto anche dello svantaggio competitivo di un euro che costa 1,38 dollari, condizione penalizzante rispetto a Usa e Far East. Più facile, considerando anche le elevate competenze esistenti in Europa, è sostenere le attività ad alto valore aggiunto dal punto di vista del capitale umano, quali ricerca e sviluppo precompetitivo di prodotti e sistemi. Infine, occorre lavorare sull’ecosistema: quando si costituisce un polo tecnologico in cui convergono imprese, infrastrutture, supporto fiscale e amministrativo, si diventa attrattivi.

E rispetto all’Italia?

Nel particolare dell’Italia, si dovrebbe andare verso un sistema formativo, delle università e dei centri di ricerca, che metta a disposizione talenti e competenze, in un contesto culturale internazionalizzato, che faccia dell’innovazione un elemento trainante. Ritengo ci sia un gap nell’orientamento dei giovani verso gli studi tecnico ingegneristici, che andrebbe colmato come elemento abilitante di una strategia industriale per aumentare la nostra competitività.

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