Nicolais: “Manca una politica pubblica seria”

L’ex ministro della Funzione pubblica e Innovazione punta il dito contro la strategia del governo: “Serve un’azione concertata tra i ministeri per rilanciare la ricerca”

Pubblicato il 22 Feb 2010

«Se si esclude l’innovazione incrementale, ovvero quella che si
limita a migliorare un prodotto o un servizio che già c’è, in
Italia c’è un quantum di innovazione radicale – quella in gradi
trasformare radicalmente i sistemi – ancora molto basso”.
Luigi Nicolais, ex ministro per la Funzione pubblica e
Innovazione del governo Prodi, attuale deputato del Pd
,
dipinge un quadro a tinte fosche del sistema Paese.
Innovazione incrementale, innovazione radicale. Sta tutta
qui la spiegazione del deficit di tecnologia che attanaglia
l’Italia?

In parte sì. Nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende c’è
una tendenza ad agire cercando di implementare un prodotto senza
ripensarlo nel profondo. Motivo per cui il tipo di ricerca messa in
campo è “parziale”. A mancare è dunque un’azione innovativa
“pervasiva” in grado di trasformare il modo di funzionare dei
sistemi, che derivi da una buona ricerca. Detto questo, va
ricordato però che la buona ricerca di per sé non può
bastare.
Cosa serve?
Il coraggio di innovare. Ovvero il coraggio di investire in
qualcosa che ancora non c’è. È il solo modo per invertire il
trend negativo.
A chi manca questo coraggio? Alle imprese che non fanno i
giusti investimenti?

La situazione è complessa. È certamente vero che l’impresa in
Italia ha delle responsabilità in questo senso – la scarsità di
investimenti verso le start up ne è un esempio – ma è
altrettanto vero che c’è una responsabilità del Pubblico che
non crea le condizioni per rilanciare la ricerca. In Italia aziende
del calibro di Motorola e Glaxo smobilitano i centri di R&D per
delocalizzarli altrove, in Paesi dove i governi hanno attuato
politiche di sostegno ad hoc. In India, oppure a Singapore, si è
scelta una strategia di sgravi fiscali per le imprese straniere che
arrivano per fare ricerca, per le assunzioni di laureati e
professionisti e si è strutturata una rete di accoglienza per
questi ricercatori. Si è arrivato addirittura a regalare le aree
dove edificare i centri. A queste condizioni perché le
multinazionali dovrebbero investire da noi, dove solo per concedere
un’autorizzazione a costruire si aspettano tre anni?
Quindi c’è bisogno di azione di governo…
Esattamente. Ma di un’azione concertata tra i vari ministeri, il
Miur, quello dell’Economia, quello degli Interni per sviluppare,
nell’ordine, programmi di lungo periodo, per garantirne la
copertura finanziare e per facilitare l’ingresso di ricercatori
stranieri. Non è pensabile che un ricercatore per essere assunto
in Italia debba fare la stessa trafila di una badante. In questo
modo non si dà alla ricerca il respiro internazionale richiesto ai
tempi della globalizzazione.
A proposito di governo, un forte traino all’innovazione
potrebbe venire da E-gov 2012?

Guardi io ho sempre creduto che la PA potesse e dovesse essere un
grande driver di innovazione. Il problema di E-gov 2012 ricalca
quello del Paese: si predilige l’innovazione incrementale, si
migliorano i prodotti ma senza cambiare alla radice il modo di fare
amministrazione.
Come cambiarlo?
Bisogna che la PA diventi un Internet dove il cittadino naviga per
ricevere i servizi, accedendo da un punto unico, e dove la
divisione degli uffici e delle competenze resti solo nel back
office. All’utente non deve interessare da chi provenga il
documento richiesto, ma solo che gli venga dato in tempi rapidi e
in modalità efficienti. Perché questo possa essere attuato serve
investire sulla larga banda: sappiamo tutti che gli 800 milioni
promessi dal ministro Romani sono ancora al palo. Non si può
lanciare un grande progetto di e-gov senza prestare la giusta
attenzione alle reti dove devono viaggiare i servizi innovativi.
Inoltre il piano non fa cenno alla questione
dell’interoperabilità che, invece, è alla base di ogni
programma di innovazione che voglia essere realmente efficiente ed
efficace.
Il ministro allo Sviluppo economico ha detto di voler
riprendere le fila di Industria 2015 che erano state un po’
abbandonate. Crede che un piano così possa essere ancora utile
oggi in tempi di crisi, in cui è difficile trovare finanziamenti
sia ancora utile?

Quel programma aveva una vision di lungo periodo che avrebbe
davvero portato risultati in termini di innoavazione e invertito il
trend. Il suo valore aggiunto stava nel ruolo che il governo aveva
avuto, ovvero quello di aver identificato delle aree, come
l’energia, il made in Italy e le scienze della vita dove si
sarebbero dovuti convogliare prioritariamente gli investimenti.
Peccato che ora l’attuale governo lo abbia abbandonato:
nonostante i progetti siano stati approvati alle aziende non è
ancora arrivato un euro.

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