L'INTERVENTO

Rinaldi (Aeit): “Senza cultura tecnica addio innovazione in Italia”

Il presidente della Federazione di Elettronica, Elettrotecnica, Informatica e Tlc: “Mancano ingegneri e tecnici, l’università non è collegata al mondo del lavoro. Le start up hi-tech? Muoiono se nessuno le aiuta”

Pubblicato il 25 Set 2013

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“Per andare avanti serve tornare indietro, a quando l’Italia credeva nel progresso tecnico e faceva delle proprie scoperte e delle proprie aziende produttive il motore pulsante dello sviluppo economico e sociale”. A sostenerlo è Mario Rinaldi, presidente dell’Aeit (Federazione Italiana di Elettronica, Elettrotecnica, Automazione, Informatica e Telecomunicazioni), che parlerà di questi temi ad un convegno a Mondello (Palermo) dal 3 al 5 ottobre, e che intanto sottolinea: “Da noi c’è carenza di cultura tecnico-scientifica con conseguente perdita di competitività del sistema produttivo e mancanza di innovazione. E la cartina al tornasole di questa tendenza sono la scuola e l’Università”.

È vero che i laureati in materie ingegneristiche diminuiscono ogni anno?

In realtà quest’ultimo anno si è registrata un’inversione di tendenza. Per esempio al Politecnico di Torino gli iscritti sono aumentati dell’11% e un trend simile si sta verificando in altri atenei. Ritengo sia una reazione alla perdurante crisi economica, per cui gli studenti si buttano su professionalità più competitive. Ma per diversi anni i laureati nei settori tecnici hanno costituito una percentuale, rispetto al totale dei laureati, ben inferiore a quella di tanti altri Paesi, uno fra tutti il Giappone. Le università italiane contano molti più iscritti in discipline economiche, giuridiche e, genericamente, umanistiche rispetto a quelle di ingegneria. I laureati in Ingegneria e i diplomati periti tecnici hanno perduto molta della loro forza propulsiva rivolta all’innovazione e in genere alla crescita della produzione industriale: non a caso le aziende lamentano la carenza di buoni tecnici di ogni livello e l’artigianato, in tutte le sue forme, pilastro portante della storia del nostro Paese, sta scomparendo. D’altro canto da un rapporto di Almalaurea emergono livelli minimi di disoccupazione tra i laureati del gruppo scientifico (12,5%), e del gruppo ingegneria (19,5%). In pratica, si potrebbe dire, con un pizzico di ironia, che la cultura tecnica è diventata meno “sexy” di un tempo, meno interessante e in grado di conferire minor prestigio alla persona rispetto al passato. Ma questo contribuisce alla perdita di competitività del sistema Paese.

Quali, a suo parere, le ragioni della decadenza della cultura tecnico-scientifica?

Nel ’68 si parlava di “imbecilli tecnologici”, accusa che non ha certo contribuito a migliorare l’immagine di chi si occupa del settore nel nostro Paese. Dopo la crisi petrolifera degli anni Settanta nelle aziende i problemi finanziari hanno preso il sopravvento su tutto il resto. Ma, anche senza andare troppo indietro nel tempo, va sottolineato che per l’innovazione servono investimenti pluriennali, e non è detto che abbiano sempre successo, mentre gli esperti di finanza vanno alla ricerca di guadagni più rapidi. Molte imprese sono state prese in mano dal settore finanziario, che solitamente ha una strategia diversa da quella dell’imprenditore, più abituato a una vision di medio e lungo periodo.

Quali le responsabilità del sistema universitario della mancanza di innovazione in Italia?

Manca il collegamento scuola-impresa. Quando ero all’Università, negli anni Sessanta, molti professori erano dirigenti d’azienda provenienti dalla Marelli, dalla Sasib o da Telefoni di Stato, solo per fare qualche nome. E questo garantiva una sorta di osmosi tra i due sistemi. In seguito un’apposita legislazione ha impedito l’affidamento di corsi universitari a persone non ufficialmente inquadrate nei ranghi dell’università stessa. Solo negli ultimi anni il legislatore è tornato, sia pur parzialmente, sui propri passi, consentendo l’insegnamento a professionisti provenienti dal mondo delle imprese, ma solo a contratto. Negli ultimi anni, poi, gli atenei hanno invertito la tendenza e cominciato a proporre stage in azienda ai propri studenti. Ma un collegamento efficace tra le due realtà è ancora da costruire.

Eppure ci sono giovani in Italia che stanno lanciando start up innovative o hi-tech. La rinascita del settore non potrebbe ripartire da loro?

Le start up sono una bellissima iniziativa ma bisogna che qualcuno che le aiuti a inserirsi sul mercato. Vorrei citare un adagio che recita: l’idea è 10, l’industrializzazione 100, la commercializzazione mille. Un giovane che non è ancora un imprenditore ha bisogno di essere aiutato da imprenditori veri. Perciò dico che le start up sono necessariamente un punto di partenza ma non di arrivo. E in gran parte falliscono perché non sono state aiutate a entrare nel mercato. È estremamente importante che si ami l’idea di fare l’imprenditore. Si cita sempre la California e la Silicon Valley come esempio di ‘brodo di coltura’ di imprenditoria innovativa. Ma da quelle parti fare impresa è considerato un fatto morale, da noi no.

Se l’Ict è in crisi in tutta Italia lo è ancora di più al Sud e l’Aiet, promuovendo il convegno in Sicilia, ha voluto sottolinearlo. Perché questo gap?

I tecnici del Sud non hanno niente da invidiare a quelli del Nord ma l’ambiente pro-impresa è più sviluppato nel Settentrione. Inoltre, come sappiamo, l’imprenditorialità meridionale è inquinata dalla malavita. La decadenza dell’ICT in Italia è un fatto storico e un problema molto complesso, quindi bisogna stare attenti a non semplificare: ma è certo che, quando l’ambiente non è favorevole a fare impresa, tutto diventa più difficile.

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