“Smart city? Ne esiste già una: è Disney World”

Stephen Brobst, Cto di Teradata, ex componente del comitato Innovation and Technology a supporto del governo di Barack Obama: “Le città intelligenti non offriranno da subito le stesse opportunità a tutti i cittadini. Ma la vera questione chiave è la sicurezza: sarà fondamentale proteggere oggetti connessi e applicazioni dagli attacchi esterni”

Pubblicato il 21 Apr 2016

Domenico Aliperto

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La definizione è una, ma gli approcci sono molteplici, spesso addirittura in contraddizione l’uno con l’altro. Cosa significa davvero smart city e qual è il percorso realisticamente più agevole per tradurre il concetto in realtà? La risposta non è univoca, e varia da Paese a Paese, da cultura a cultura: a seconda dei casi, il processo di inclusione digitale dei cittadini può partire dal basso o dall’alto, può svilupparsi attraverso progetti organici o iniziative su verticali specifici, può infine prendere le mosse dal pubblico piuttosto che dal privato.

L’unica certezza è che, in qualsiasi modo si affermeranno le città intelligenti, i player tecnologici che contribuiranno a realizzarle dovranno prima di ogni altra cosa affrontare la sfida della sicurezza. Parola di Stephen Brobst, CTO di Teradata e già membro dell’Innovation and Technology Advisory Committee, il gruppo di lavoro che ha sostenuto il governo americano sui temi scientifici e tecnologici dell’agenda di Barack Obama. Corcom ha incontrato Brobst durante l’edizione 2016 del Teradata Universe, l’evento (appena conclusosi ad Amburgo) che il gruppo specializzato in data warehousing e analytics dedica ogni anno a clienti e partner internazionali.

Brobst, qual è la sua definizione di smart city?

Un luogo che diventa self-aware, autocosciente. Ma anche un luogo in cui i cittadini possono dirsi pienamente soddisfatti dei servizi che ricevono e delle infrastrutture che adoperano.

Quindi dove sorgeranno le prime vere smart city?

Sotto il profilo tecnico, ne esiste già una, ed è Disney World: facilities e trasporti completamente integrati, utenti perennemente tracciati grazie a braccialetti connessi che attivano servizi e transazioni, una esperienza d’uso eccezionale. Ma parlando di città in senso stretto, penso al caso di Singapore. La trasformazione è guidata da un governo che sa farsi valere, trattandosi in un certo senso di dittatura benevola, e la creazione dell’infrastruttura su cui sono erogati servizi e applicazioni digitali segue un modello top-down che si sta rivelando molto efficace. Offerte private come quelle di Uber, per esempio, non sono supportate. Ma è stata creata una piattaforma analoga che aiuta i cittadini a scegliere i servizi di mobilità con risultati molto interessanti.

Dunque l’Internet of things dedicato alle città intelligenti non seguirà il modello che ha sostenuto la crescita del Web, con interazioni e contenuti prevalentemente generati dagli utenti?

Quest’affermazione è solo parzialmente vera. E tutt’ora il Web non è accessibile a chiunque. Basti pensare anche a molte economie emergenti, come quella indiana, dove la maggior parte delle persone utilizza ancora telefoni Gsm. Nel medio termine ci sarà di sicuro un salto, e molti benefici saranno estesi a gran parte della popolazione globale. Ma non sono così ingenuo da pensare che avremo tutti le stesse opportunità online. Lo stesso accadrà per le applicazioni dedicate alla smart city.

Lei pone molto l’accento su servizi e asset intangibili. Parliamo quindi di un Internet delle applicazioni piuttosto che di un Internet delle cose?

È un modo diverso di esprimere lo stesso concetto. Osservando l’evoluzione dell’Internet of things, possiamo dire che fondamentalmente oggi è basato su piattaforme che distribuiscono valore. Uber o Airbnb rappresentano casi emblematici: non le chiamerei applicazioni, ma piattaforme che facilitano la disruption dell’economia abilitando nuovi modelli di business. E come Uber e Airbnb ce ne saranno molte altre costruite su verticali diversi, a partire dall’healthcare. In ogni caso, l’applicazione è solo un end-point, l’interfaccia che funge da punto di contatto tra cittadino ed ecosistema.

Come evolverà la relazione tra uomini e macchine? Diventeremo tutti programmatori o per l’appunto le interfacce saranno così efficaci da farci dimenticare la complessità sottostante?

Paradossalmente, se i linguaggi di programmazione funzioneranno come dovrebbero, diverranno inutili. Qualche tempo fa Angry birds, una delle applicazioni videoludiche più scaricate di sempre, pur essendo realizzata da una software house (la finlandese Rovio Entertainment, ndr), è stata battuta da Bubble Ball, un gioco creato da un ragazzino di 14 anni che non sapeva scrivere nemmeno un riga di codice. Credo sarà questo il paradigma per i prossimi anni, non solo in ambito consumer, ma anche rispetto a realtà come la nostra che sviluppa strumenti analitici per il mondo enterprise.

Che ruolo avranno i wearable?

Qui entriamo nello spazio dello Human IoT, che pur distanziandosi molto dei temi dell’Industrial IoT contribuirà a creare modelli ibridi trasformando la catena del valore in una prospettiva B2B2C. Registrando le abitudini e le preferenze dei consumatori attraverso i sensori, i beni di consumo dialogheranno direttamente con il produttore che potrà sfruttare approcci alla distribuzione a cavallo di vendita diretta e retail, o anche dare vita a modelli di business inediti. I dati generati da uno spazzolino elettrico possono essere utilizzati per sapere quand’è il momento di sostituirne le parti consumabili o, perché no, essere condivisi con il dentista, che sarà in grado di monitorare lo stato di salute del cliente.

Resta da parlare di un problema chiamato standard…

Le dirò che ce n’è uno ancora più grosso chiamato sicurezza. È quella la sfida più insidiosa che ci aspetta nei prossimi anni. Nel momento in cui gli oggetti entrano in contatto con la Rete, come fecero i pc vent’anni fa, possono essere attaccati. Che si tratti di un’auto, di una casa o di una trivella per l’estrazione di idrocarburi, l’Internet of things mette a disposizione degli utenti un enorme potere, di cui però qualcun altro può facilmente abusare: mentre gli hacker in questi anni sono diventati sempre più scaltri e preparati, gli oggetti sono rimasti stupidi a causa del loro totale isolamento. Del resto è stato sottolineato anche al World Economic Forum: la missione più importante dell’industry è creare sì degli standard, ma innanzitutto per la sicurezza.

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