L'ANALISI

Start up, un decreto a misura di università

Il Crescita 2.0 stabilisce fra i prerequisiti il titolo di dottorato di ricerca: si rischia il bis del caso Mashape

Pubblicato il 15 Ott 2012

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L’iniziativa a favore delle start up innovative del ministro Passera ha provocato un vivace dibattito tra startupper italiani e addetti ai lavori, a dimostrazione di quanto sia difficile in Italia introdurre processi innovativi di policy making in organismi sclerotizzati quali i ministeri italiani. Occorre, però, riconoscere che il lavoro preparatorio, costituzione di una task force sulle start up con la partecipazione di una decina di personalità prese dal “territorio” dell’innovazione tecnologica (università, incubatori, venture capital), era partito con il piede giusto. In pochi mesi, tempo rapido per la PA italiana, la task force ha prodotto un Rapporto, “Restart Italia”, tradotto poi in un complesso articolato di legge che rappresenta uno dei pezzi forti del Decreto.

Un processo di analisi, studio e proposta legislativa durato pochi mesi è senz’altro una novità per il nostro Paese, ma le critiche, giustamente, sono dirette ai contenuti del Decreto. La definizione di “Start Up innovativa” contenuta nell’articolo 25 apre il primo fronte di critica. La scelta fatta risente fortemente della cultura accademica italiana che vede come “tutto” e non come “parte” dell’universo start up gli spin off universitari. Infatti, prevedere come prerequisiti un titolo di dottorato di ricerca o di laurea con almeno tre anni di ricerca certificata da istituti di ricerca pubblici o privati, investimenti in R&S superiori al 30% del valore di produzione della start up e di essere titolari di brevetti industriali, è un vestito cucito su misura agli spin off universitari.

Senza scomodare gli esempi di Zuckerberg e di altri campioni della Silicon Valley è bene ricordare un caso italiano. Mashape, aggregatore di Api rivolto agli sviluppatori, è stato fondato da tre ragazzi, oggi under 25, Marco Palladino, Michele Zonca e Augusto Marietti che, dopo aver perso due anni di tempo in Italia a bussare a tutte le porte e sentirsi ripetere che il progetto era interessante ma loro troppo giovani, sono sbarcati nel 2010 a San Francisco dove in due settimane hanno trovato il primo finanziamento da 100mila dollari.

Dopo un anno due signori, Jeff Bezos fondatore di Amazon ed Eric Schmidt presidente di Google, hanno investito nella società 1.5 milioni di dollari. Oggi Mashape lavora per il terzo round di finanziamento da 9 milioni di dollari, la rivista Wired indica i tre ragazzi tra le personalità 2012 che “miglioreranno il mondo” e gli addetti ai lavori sanno che Mashape è un progetto che sta dettando le regole della nascente Api-economy.

Qual è il problema? I tre ragazzi non solo non hanno un dottorato di ricerca ma Marco Palladino, la mente tecnologica, neanche una laurea, in compenso programma software da quando aveva 12 anni. Passando poi agli altri articoli del decreto ci si imbatte in una nuova tipologia di contratto lavorativo, “rapporto di lavoro subordinato in start up innovative”, come se non bastassero all’Italia le 48 diverse fattispecie di contratto lavorativo che costituiscono il problema di un mercato del lavoro duale che le parti sociali ed un altro ministero cercano, ancora senza risultati, di superare. Infine per l’attuazione degli otto articoli di legge dedicati alle start up innovative serviranno tre decreti ministeriali da emanare entro 60 giorni dalla conversione in legge del decreto e un regolamento attuativo della Consob entro 90 giorni.

A questo punto occorre sperare che il ministero dello Sviluppo dei “tecnici” sappia fare di meglio di ciò che ha prodotto ai tempi dei “politici”, quando un bando per start up tecnologiche finanziato con 35 milioni di euro e pubblicato nel marzo 2009 ha prodotto la prima graduatoria delle aziende ammesse nell’aprile 2011. Oggi ancora in attesa dell’erogazione dei fondi. Oltre tre anni di tempo per sostenere una start up. Un ossimoro.

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