il caso

Android, l’Ue spinge per la conferma della maxi-multa da 4,1 miliardi



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L’avvocata generale Kokott chiede alla Corte di Giustizia Ue di rigettare l’impugnazione di BigG, ribadendo l’abuso di posizione dominante sul mercato mobile

Pubblicato il 19 giu 2025



google, big tech, over the top

Google Android torna sotto i riflettori della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e con esso il tema della regolazione della concorrenza nei mercati digitali. Il 19 giugno 2025, l’avvocata generale Juliane Kokott ha chiesto ai giudici europei di respingere l’impugnazione di Google contro la sentenza del Tribunale dell’Ue che, nel 2022, aveva confermato gran parte delle accuse mosse dalla Commissione nel 2018 e rimodulato la sanzione a 4,124 miliardi di euro.

Al centro della disputa c’è l’ecosistema Android, che Google ha utilizzato – secondo l’esecutivo europeo – come leva per rafforzare il monopolio nel settore della ricerca online, limitando in modo sistematico la libertà di scelta dei produttori di dispositivi mobili e ostacolando la concorrenza attraverso pratiche contrattuali giudicate abusive. Una vicenda giudiziaria complessa che dura ormai da oltre sette anni e che rappresenta una pietra miliare nella politica antitrust digitale dell’Ue.

Una sanzione record per Google Android

La Commissione europea aveva inizialmente inflitto a Google, il 18 luglio 2018, una multa da 4,343 miliardi di euro – la più alta mai imposta da Bruxelles a un’azienda – accusandola di aver abusato della sua posizione dominante a partire dal 2011, con pratiche che obbligavano i produttori a preinstallare Google Search e Chrome per accedere al Play Store, vietavano l’uso di versioni alternative di Android (cosiddette “fork”) e imponevano restrizioni sulla ripartizione dei ricavi pubblicitari se i produttori inserivano servizi concorrenti.

La Commissione ha definito queste pratiche come un’infrazione unica e continuata, progettata per anticipare l’espansione dell’Internet mobile e proteggere il modello di business di Google, basato essenzialmente sulla pubblicità generata dai motori di ricerca. Tali restrizioni, afferma l’Ue, hanno avuto l’effetto di chiudere il mercato ad altri operatori, impedendo lo sviluppo di concorrenti nel campo della ricerca online e della navigazione su dispositivi mobili.

La sentenza del 2022 e l’impugnazione di Google

Google aveva impugnato la decisione dinanzi al Tribunale dell’UE, ottenendo solo una parziale revisione della sanzione. Con la sentenza del 14 settembre 2022, il Tribunale ha confermato la maggior parte delle accuse, annullando solo la parte relativa alla “ripartizione dei ricavi”, e ha ricalcolato la sanzione a 4,124 miliardi di euro.

Tuttavia, Google ha successivamente presentato un nuovo ricorso presso la Corte di Giustizia. L’azienda sostiene che il Tribunale non avrebbe applicato correttamente il principio di controfattualità, ovvero non avrebbe adeguatamente analizzato cosa sarebbe successo in un mercato libero da pratiche abusive. Inoltre, secondo Google, l’analisi concorrenziale condotta non ha considerato correttamente se i rivali potessero essere “altrettanto efficienti”.

A queste obiezioni, l’avvocata generale Kokott ha risposto con una netta presa di posizione: le argomentazioni di Google sono infondate o inoperanti, e non possono giustificare l’annullamento della sentenza del Tribunale.

Kokott: abuso chiaro, concorrenza compromessa

Nelle sue conclusioni, Kokott sottolinea come il Tribunale abbia correttamente valutato le prove, identificando uno schema coerente di pratiche restrittive, finalizzate a mantenere lo status quo a favore di Google. In particolare, evidenzia l’impatto della preinstallazione di app come Google Search e Chrome: la decisione degli utenti di non cambiare motore di ricerca o browser, afferma l’avvocata, era condizionata dallo status quo bias, cioè dalla tendenza a mantenere le impostazioni predefinite.

Il Tribunale, aggiunge Kokott, non era obbligato a dimostrare che i concorrenti esclusi fossero “altrettanto efficienti” rispetto a Google. Una pretesa irrealistica in un contesto in cui l’azienda americana deteneva vantaggi competitivi strutturali, come gli effetti di rete e l’accesso ai dati, che avrebbero reso impossibile per qualsiasi competitor emergere in condizioni paritarie.

La strategia di Google, conclude Kokott, era volta a proteggere il suo dominio e le relative entrate pubblicitarie, nonostante la parziale cancellazione del regime di revenue sharing.

Implicazioni per il mercato digitale europeo

Questo caso non è solo una disputa legale tra Bruxelles e uno dei colossi del tech. È il simbolo di una rinnovata assertività dell’Europa nella regolazione dei mercati digitali, in particolare rispetto ai cosiddetti “gatekeeper”, cioè le piattaforme che controllano l’accesso a mercati cruciali.

Il Digital Markets Act (Dma), entrato in vigore nel 2023, ha istituito un nuovo quadro normativo per limitare il potere delle big tech e promuovere un ecosistema digitale più aperto, competitivo e trasparente. Sebbene separata, la vicenda Google Android è spesso citata come la genesi politica del Dma, che ora impone vincoli simili a quelli sanzionati nel caso Google: divieto di preinstallazioni forzate, maggiore interoperabilità, apertura alla concorrenza nei servizi core.

Verso la sentenza definitiva

Le conclusioni dell’avvocata generale non sono vincolanti, ma storicamente vengono seguite in circa l’80% dei casi dalla Corte di Giustizia. I giudici inizieranno ora le deliberazioni, e la sentenza definitiva sarà pronunciata nei prossimi mesi. Se la Corte accoglierà le raccomandazioni di Kokott, per Google si tratterà di una conferma pesante della propria responsabilità e di un precedente giurisprudenziale significativo per tutte le altre big tech operanti in Europa.

Google Android e lo scontro tra modelli digitali

Il caso Google Android incarna una tensione più ampia tra due visioni contrapposte del digitale: quella americana, basata su economia di scala, pubblicità e chiusura degli ecosistemi, e quella europea, centrata su concorrenza, diritti digitali e pluralismo tecnologico.

La posta in gioco non è solo economica – anche se 4,1 miliardi di euro sono una cifra enorme – ma culturale e politica: riguarda il modo in cui l’Europa intende affermare la propria sovranità digitale e proteggere gli spazi pubblici online da pratiche monopolistiche.

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