“Sarà un nuovo welfare hi-tech a sconfiggere la jobless growth”

Carboni, sociologo dell’economia: “Serve investire in nuove politiche educative per colmare il digital gap e riuscire a prevenire e battere la perdita di posti di lavoro”

Pubblicato il 29 Mag 2015

Dario Banfi

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Carlo Carboni è professore ordinario di Sociologia economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche dove insegna anche Filosofia politica. Ha presentato di recente all’Accademia Nazionale dei Lincei il progetto di ricerca “Cercare lavoro nel futuro: sarà degli uomini o dei robots? Scenari europei a destini divergenti“.

Professore quale relazione esiste tra tecnologia e occupazione?

In campo scientifico la relazione è sempre stata vista in maniera mediata, in rapporto alla crescita. Il progresso tecnologico, per oltre un secolo, ha portato benefici sia alla crescita sia alla produttività, che hanno sempre permesso un aumento dell’occupazione. Nell’ultimo scorcio di secolo c’è stata una grande accelerazione, ma con gli anni Duemila le cose sono cambiate. Diversi studi, per esempio quello di due professori del Mit, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, autori di “Race Against The Machine”, sostengono che si sia fermata la crescita lineare e parallela, avvenuta fino a fine secolo, di produttività e occupazione.

E in Europa?

Noi europei abbiamo sofferto ancora di più, poiché non siamo stati protagonisti della rivoluzione tecnologica, ma l’abbiamo in parte solo lambita. Abbiamo applicato un technological change ai settori preesistenti, dall’industria alla logistica all’intermediazione finanziaria e commerciale, dove c’è stata una sistematica riduzione di lavori routinari, sostituiti da soluzioni tecnologiche.

Siamo cioè in competizione con le macchine?

Due professori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osbornee, nel 2013, con il saggio “The Future of Employment”, hanno calcolato che negli Usa nei prossimi 15 anni è a rischio di computerizzazione il 47% dei posti di lavoro, per un totale per 700 tipologie di lavoro. La fondazione Bruegel sostiene che in Europa si arriva, addirittura, al 50%. Che le tecnologie possano tagliare posti di lavoro nei settori tradizionali è evidente. Il problema è la gestione di questo processo.

Cioè?

È necessario trovare una terza via che superi il dibattito tra i cosiddetti “apocalittici” e gli “integrati”. Da una parte c’è il timore di perdere il lavoro: riguarda tutti, senza eccezioni, anche professioni tradizionali come quelle di docenti universitari, che saranno sostituiti dall’e-learning, dei giornalisti della carta stampata superati da Internet, dei commercialisti, superflui se le dichiarazioni precompilate funzionano, perfino dei medici, surclassati dalle diagnosi fatte con apparecchiature elettroniche. Dalla parte opposta ci sono gli ottimisti: sostengono che si perdono oggi molti lavori, ma se ne creeranno nuovi, come sempre si è fatto, per esempio con la rivoluzione industriale.

La terza via è una nuova rivoluzione industriale?

No. È una forte presa di coscienza del fenomeno. Che la nostra industria possa generare nuova occupazione appare difficile: bisogna puntare su nuovi settori e, realisticamente, sul’apertura di quella fase che già Schumpeter prevedeva sostenendo che dopo l’innovazione e l’invenzione c’è la diffusione e l’imitazione. Ecco, noi italiani siamo abbastanza forti in queste ultime. La speranza è che la rivoluzione informatica, che finora ci ha visto abbastanza passivi, metta in moto anche da noi ricerca e sviluppo.

Eppure, come dice Enrico Moretti nella “Geografia del Lavoro”, ogni posto nell’hi-tech genera un indotto di quattro posti di lavoro. Cosa dobbiamo temere?

È vero, Eurostat conferma questi dati. Più cavalchiamo la rivoluzione tecnologica e maggiori possibilità abbiamo. Il problema è che il settore hi-tech in Europa conta pochissimo. Rispetto a un Pil europeo di 13mila miliardi, oggi produce solo 7,5 miliardi di euro. Nel 2018 arriveremo a 63 miliardi, ma resta una porzione limitata. Per altro la forza lavoro considerata “super skilled” è soltanto il 10%. Dobbiamo, in altre parole, temere la crescita senza occupazione.

Quali conseguenze avrà?

La jobless growth è come attraversare un deserto. Può essere un periodo più o meno lungo, ma genera una forte assenza di posti di lavoro e una segmentazione pesantissima sul mercato del lavoro. Da una parte lavoratori “super skilled”, dall’altra chi esegue lavori routinari e sottoccupati. La ricchezza prodotta aumenterà il divario tra ricchi e classi meno agiate, che vedranno minori benefici e retribuzioni più basse.

Chi deve occuparsi del problema?

Le classi dirigenti italiane: occorre rimodulare il nostro welfare state. Serve un nuovo welfare tecnologico-culturale, che parta dall’educazione. Occorre investire in politiche educative e di competenza, per offrire le stesse opportunità all’interno di una democrazia di mercato, salvaguardando almeno alcuni punti di equità. È opportuno valutare nuove ipotesi come l’estensione del welfare al lavoro autonomo o la sperimentazione di nuove forme di reddito di cittadinanza.

Come mai cita il lavoro autonomo?

Perché queste dinamiche spingono la crescita del self-employment. La tecnologia consente di produrre con maggiore precisione, velocità e flessibilità. Offre nuove opportunità di neo-artigianato e ricuce lo strappo tra work e brain. Nella rivoluzione industriale, molta energia spesa riguardava la fatica fisica, che ha prevalso su quella mentale. Ora siamo in un’epoca che restituisce brain power e concilia il lavoro con la mente. In questo il lavoro autonomo è favorito dalle nuove tecnologie.

A quale mercato del lavoro darà forma la tecnologia?

Credo che in futuro, tra i lavoratori, ci sarà un fronte molto compatto e competente sui temi delle tecnologie, che potrà arrivare a coprire il 15%-20% della forza lavoro. A seguire un mare magnum di professioni più o meno svalutate, che comprenderà molto più lavoro autonomo e molto più spirito imprenditoriale. Il concetto di imprenditorialità sarà più diffuso, non indebolito. L’impresa resterà, comunque, il traino principale, a partire, speriamo, dalle nuove startup.

Quale rischio vede in questo assetto?

Il pericolo è che il mercato si “mummifichi”, ponendo, da una parte, un mono-blocco di lavoratori super-specializzati, dall’altra il resto della società. Il rischio più alto lo corre il ceto medio, in piena crisi. Negli Usa economisti come Paul Krugman hanno evidenziato la difficoltà di questo segmento: la tecnologia ha picchiato duro su blue collar e white collar allo stesso modo. In Italia le cose non molto sono diverse, soltanto leggermente in ritardo.

Come vincere the race against the machine?

Brynjolfsson e McAfee dicono che tutto sommato la corsa non è contro la macchina, ma con la macchina: l’uomo non rinuncerà al proprio primato e le macchine dipenderanno sempre dall’uomo. In altre parole l’innovazione tecnologica dovrà essere concepita a misura di uomo, non come una corsa per generare robot con l’unico fine di sostituire l’uomo.

E la competizione tra Paesi?

Qui il livello di complessità è maggiore: è chiaro che l’Europa parte svantaggiata. Stare nella “seconda velocità” europea peggiora poi le cose: i problemi strategici vengono posti sempre dietro altri più pressanti, come, per esempio, il debito pubblico. Come Paese abbiamo bisogno di maggiore produttività: il gap principale riguarda i servizi. La nostra industria, in particolare quella media, tutto sommato funziona bene. Esistono molte eccellenze, più di quante immaginiamo, che hanno buoni imprenditori. Sono “scientific-oriented”, con mentalità da ingegneri. Guardano al profitto, ma anche al risultato. Uniscono il gusto per la conoscenza con quello della realizzazione. Questo c’è anche in Italia anche se quasi non ce ne accorgiamo. Dovremmo ripartire da questi casi di studio.

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