Scuole 2.0, Ferri: “Ne abbiamo, ma non fanno sistema”

Il docente della Bicocca: bisogna valorizzare le best practice e fare rete. Le telco aiutino il Paese: possono fare molto ma oggi si limitano a vendere schede telefoniche

Pubblicato il 02 Mar 2014

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Non è un panorama fosco quello che delinea Paolo Ferri, docente di Tecnologie didattiche e Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università Bicocca di Milano e autore dei testi Nativi digitali e La scuola 2.0 sul “contatto” tra digitale e infanzia in Italia. Secondo il professore la Penisola si contraddistingue, soprattutto per quanto riguarda educazione e insegnamento, per fenomeni di eccellenza sparsi a macchia di leopardo su tutto il territorio. Quello che manca davvero è la messa a sistema delle buone pratiche sviluppate da alcune realtà locali. Oltre alla pesantissima assenza degli operatori telefonici, preoccupati più di vendere contratti che non di promuovere la cultura dei servizi che offrono.

Professore, qual è il rapporto tra tecnologia e infanzia?

In generale nelle famiglie con bambini piccoli è dato per scontato: l’80% possiede uno smartphone, nell’85% dei casi c’è un pc tra le mura domestiche e i tablet si stanno diffondendo sempre di più. L’uso tecnico i bambini lo conoscono già, il problema è che sono ignoranti rispetto a ciò che fanno. Il salto consisterebbe nell’andare a lavorare sulla capacità di maneggiare le tecnologie, oltre all’utilizzo ludico, anche per farle diventare strumenti di apprendimento. Ciò comporta una fatica strutturale, ma inciderebbe su vari elementi: dalla motivazione alla personalizzazione fino alla pratica di una didattica costruttiva.

Quali caratteristiche devono avere hardware e software?

Uno strumento, per essere usabile, deve essere simile a quelli familiari, quelli usati da mamma e papà per intenderci. E dev’essere bello, il più possibile vicino ai videogiochi. Dubito si vedranno soluzioni del genere. Per rimanere sul concreto, occorre un ambiente in cui si affrontano sfide cognitive, senza l’erogazione di contenuti precotti come video e presentazioni. Lo strumento deve servire a fare esperimenti, sviluppare attività che permettano di appropriarsi di conoscenze attraverso l’esperienza.

Come cambia il modello di insegnamento?

Prima doveva essere nozionistico, perché le nozioni non erano immediatamente disponibili e i centri del sapere erano pochi e ristretti. Oggi con un click si accede a tutto il sapere, non serve che si trasmettano nozioni, occorre che quelle a disposizione diventino saperi significativi. Si passa da un modello di lezione frontale a un paradigma in cui gli studenti mettono a frutto il sapere della Rete attraverso una didattica laboratoriale, con il supporto delle nuove tecnologie.

In Italia siamo molto indietro.

All’estero quest’approccio è ampiamente implementato. In Svezia, Danimarca e Olanda costruiscono le nuove scuole creando ambienti formativi integrati con la tecnologia. In Italia il fenomeno è a macchia di leopardo: abbiamo alcuni esempi di perfette scuole 2.0 così come istituti con la maggior parte delle classi sprovviste della connessione Internet. Come in altri settori non riusciamo a mettere a sistema le best practice.

L’educazione è la priorità?

Se non si investe in formazione, non ne verremo mai a capo.

Le imprese possono aiutare?

Tutto quello che viene dall’impresa è benvenuto, ma anche qui spesso manca la consapevolezza dell’importanza della questione. Il privato potrebbe sostenere grossi cambiamenti con relativamente pochi investimenti. Eppure le telco, ad esempio, non fanno nulla. Le iniziative sono tutte volte alla fidelizzazione dei consumatori: la priorità è vendere schede telefoniche.

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