Una review peer‑reviewed, “Environmental considerations for the decommissioning of subsea cables”, mette per la prima volta in fila driver, evidenze e raccomandazioni per la rimozione o il riuso dei cavi sottomarini fuori servizio. È una svolta per l’ecosistema digitale perché i cavi sottomarini trasportano il 99,9% del traffico dati globale e la loro rete supera 3,5 milioni di chilometri: la stagione della gestione a fine vita diventa una componente strategica della pianificazione delle nuove rotte e del riuso del fondale in un mare sempre più affollato da rinnovabili, interconnessioni energetiche e nuovi sistemi ottici. Il punto della review: recuperare conviene economicamente e in ottica di economia circolare e, se fatto bene, impatta poco e localmente, ma non sempre è possibile, né sempre è la scelta migliore.
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Un patrimonio in fondo al mare: numeri dei cavi sottomarini
La review ricostruisce la geografia dell’infrastruttura: oltre 1,8 milioni di km di sistemi in esercizio e uno stock storico superiore a 3,5 milioni di km, con due terzi ormai fuori servizio (telegraph, coassiali e prime fibre) lasciati spesso in situ per il loro impatto generalmente minimo in fase post‑posa. Il ciclo di vita tipico dei sistemi tlc è 20–25 anni: l’ingresso in esercizio di nuove tratte ad alta capacità alimenta domanda di rimozione per liberare rotte consolidate, evitare congestioni in aree critiche e recuperare materiali di valore. Tra 2023 e 2025 le nuove costruzioni hanno aggiunto circa 300mila km, accentuando l’urgenza di policy e prassi di fine vita.
Recupero e riciclo: quanto vale l’economia circolare dei cavi sottomarini
I materiali che compongono i cavi – rame, acciaio e polietilene – possono essere recuperati quasi interamente, con percentuali vicine al 100%. Anche gli apparati di ripetizione più vecchi raggiungono livelli di riciclabilità superiori al 95%, nonostante contengano minuscole quantità di sostanze radioattive usate in passato nei limitatori di sovratensione: queste vengono comunque rimosse e smaltite in sicurezza da operatori autorizzati. Il beneficio è duplice: da un lato si reinseriscono materie prime di alta qualità nel ciclo produttivo, dall’altro si riduce l’estrazione di nuovi materiali, con effetti positivi sulle emissioni di CO₂. Oltre al riciclo, alcune tratte recuperate possono essere riutilizzate per collegamenti tra isole o sistemi costieri, in contesti dove installare nuovi impianti sarebbe troppo costoso.
Quanto disturba il recupero: impatti fisici e biologici
Gli impatti derivano soprattutto dai passaggi del grapnel, il dispositivo utilizzato per agganciare e tagliare il cavo, e dalla successiva trazione quando il cavo è interrato. Si tratta di disturbi molto localizzati e temporanei, meno invasivi rispetto alle operazioni di posa con aratura o jetting, che possono generare pennacchi di torbidità (plume) ma tendono a dissolversi in pochi minuti o ore, entro distanze limitate. Durante il recupero, che non richiede scavi estesi, le analisi video non evidenziano plume significativi se il cavo non è sepolto in profondità. È comunque raccomandato evitare l’uso di grapnel in habitat sensibili e pianificare indagini preliminari per ridurre al minimo gli impatti.
Colonizzazioni biologiche: eccezione, non regola
I dati operativi analizzati in review – oltre 5.000 km complessivi tra Atlantico NE, Brasile e Pacifico – mostrano cavi puliti e non incrostati nella quasi totalità dei casi; un solo tratto di circa 3 m con spugne/anemoni su 1.890 km recuperati al largo del Portogallo. Colonizzazioni più marcate emergono come casi locali in acque poco profonde e ben ossigenate o su strutture protettive dal grande sviluppo superficiale, non sul cavo nudo da 17–21 mm che offre bassa complessità d’habitat.
Perché non si può sempre togliere tutto
Il tasso di successo nei casi analizzati varia dal 51% al 100%, con una media del 92%. Le difficoltà maggiori si riscontrano in zone poco profonde, dove sabbie mobili e migrazione di dune sommerse possono seppellire i cavi oltre le quote previste. Quando l’interro supera 0,8–1,2 metri il recupero diventa complesso; oltre i 2 metri è spesso impraticabile senza interventi di escavazione massiva, che non sempre sono autorizzati. Un altro ostacolo è rappresentato dagli incroci con cavi o condotte attive: in questi casi è necessario tagliare e lasciare sul fondale brevi tratti, fissati con zavorre secondo le regole di sicurezza.
A complicare il quadro interviene la normativa, frammentata tra Paesi e persino tra autorità nazionali. Gli obblighi di rimozione totale si scontrano con limiti tecnici e ambientali, mentre approcci più flessibili, come il modello “case by case” adottato in Danimarca, garantiscono maggiore certezza operativa senza ridurre le tutele.
Quando lasciare in fondo al mare ha senso
Le fibre ottiche possono essere riutilizzate come sensori distribuiti per tsunami ed eventi sismici, dinamica delle correnti di fondo, monitoraggio climatico e persino bioacustica dei cetacei. In alcune tratte il valore scientifico di un cavo spento può superare quello del materiale recuperato. Dove strutture protettive hanno favorito habitat locali, rimuoverle può azzerare servizi ecosistemici. Qui entrano i principi di Marine Net Gain: compensazioni e bilanci di biodiversità che possono giustificare parziali non rimozioni o decommissioning selettivi.
Implicazioni per l’industria e regolazione
Il paper suggerisce tre direttrici operative:
- Integrare il fine vita già in fase di progettazione e autorizzazione
Prevedere sin dall’inizio come sarà gestito il cavo a fine servizio, evitando soluzioni che rendano impossibile il recupero (come interri troppo profondi). Inserire clausole nei permessi e nei contratti che contemplino scenari realistici di rimozione o riuso.
- Standardizzare la raccolta dei dati ambientali
Durante le operazioni di recupero è essenziale registrare informazioni chiave (profondità, tipo di substrato, eventuale colonizzazione biologica, impronta delle manovre). Dati omogenei e condivisi permettono di costruire un’evidenza scientifica solida e di semplificare le procedure autorizzative future.
- Pianificare campagne lunghe e coordinate, anziché interventi frammentati
Meglio un’operazione estesa e ben preparata che molte incursioni isolate: si riducono i disturbi ripetuti sul fondale e si ottimizzano tempi, costi e consumi energetici delle navi. Questo approccio consente anche di armonizzare le attività con altri usi del mare, come nuove rotte o impianti offshore.
La review propone armonizzazione e strumenti come licensing semplificato, esenzioni mirate per il recupero al pari della riparazione, riconoscimento del recupero come misura compensativa utile a sbloccare altri progetti. Obiettivo: passare dal principio di rimozione totale a valutazioni caso per caso, che combinino capex/opex, cumulative impact e valore ecologico/scientifico della permanenza.












