Quando Marina Berlusconi, in una lettera aperta pubblicata sul Corriere della Sera, ha denunciato come «quasi due terzi del mercato pubblicitario globale vengano inghiottiti dai colossi della Silicon Valley, che fanno esattamente il contrario» delle imprese editoriali, ha voluto denunciare un fenomeno che non riguarda solo il settore dei media, ma lo travalica. Per investire in profondità tutta la filiera digitale.
E proprio su quella lettera Pietro Labriola, Ad di Tim, ha tratto spunto per un ragionamento rivolto al comparto delle telecomunicazioni e pubblicato su Linkedin. «Leggendo la lettera aperta che Marina Berlusconi ha scritto, ho trovato molti punti in comune con ciò che sostengo da tempo – evidenzia – Non possiamo accettare un mondo a due velocità: da una parte chi crea valore rispettando le regole, dall’altra chi lo erode senza porsi limiti».
Queste parole condensano la visione di Labriola: gli operatori di rete – tradizionalmente i soggetti che realizzano infrastrutture, pagano licenze, garantiscono occupazione, investono sul territorio – oggi rischiano di essere compressi da piattaforme globali che monetizzano servizi applicativi e non partecipano agli oneri strutturali (infrastrutture, regolazione, fiscalità) con la stessa intensità.
Il tema è dunque duplice: da un lato la sostenibilità industriale delle Tlc, dall’altro la riscossa della sovranità digitale, della catena del valore che non si limiti al trasporto di bit ma partecipi al valore generato dagli stessi.
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La simbiosi perduta tra reti e applicazioni
Nel suo intervento su LinkedIn, Labriola ricostruisce il percorso storico del rapporto rete-applicazioni: «C’è stato un tempo in cui telecomunicazioni e servizi digitali vivevano in simbiosi […] Le Telco costruivano e finanziavano le reti, gli Ott – le grandi piattaforme globali – creavano applicazioni che ne alimentavano la domanda».
Era un rapporto «di reciprocità utilità, una forma di mutualismo naturale» che però «con il tempo si è incrinata». La causa, spiega Labriola, è nel cambiamento tecnologico: «L’introduzione del protocollo IP. Un linguaggio universale che ha reso possibile trasportare qualsiasi informazione – voce, video, dati – su una rete unica e neutra. Un progresso straordinario, ma anche la fine del controllo sul servizio».
In altri termini, mentre fino a ieri la rete aveva il controllo (almeno potenziale) del servizio e dunque del valore, oggi «chi possiede l’esperienza, possiede il cliente. E chi possiede il cliente, possiede il valore». Per le Telco questa inversione è drammatica: investono sempre di più ma vedono il valore volare altrove.
Questo non è soltanto un fatto tecnico o economico: è, nella visione di Labriola, un fatto industriale e anche geopolitico. Le infrastrutture delle reti restano radicate nel territorio, pagano licenze, creano occupazione, assicurano la resilienza. Le piattaforme, invece, operano a scala globale, spesso con regole leggere, fiscalità frammentata, e fuori dal perimetro regolamentare delle Telco. Il risultato è una “dipendenza tecnologica” che mette in ginocchio il modello industriale delle infrastrutture.
La net neutrality sotto la lente critica
Un passaggio centrale dell’analisi riguarda la net neutrality. Per Labriola, sebbene il principio sia «sacro» nel garantire libertà e concorrenza, la sua applicazione più rigida ha prodotto una distorsione: «ha impedito alle Telco di differenziare e monetizzare la qualità».
In un mondo in cui «tutti i bit sono uguali», anche quelli costosi da trasportare – per esempio i flussi 4K streaming – «vengono prezzati allo stesso modo». Ne consegue che «l’Ott monetizza la nitidezza, le Telco ne pagano il costo». Il paradosso è evidente: chi costruisce la rete investe, ma non partecipa pienamente al valore che passa su quella rete.
La proposta è audace: occorre passare da una net neutrality dogmatica a una neutralità proporzionale, che riconosca che non tutti i bit costano lo stesso e che chi trasporta traffico più gravoso o richiede qualità superiore possa valorizzare quel differenziale. Si tratta di un tema che implica una riflessione regolamentare, industriale e tecnologica insieme.
L’asimmetria economica e il parassitismo industriale
Labriola utilizza un’immagine forte: le Telco sono diventate “tubi passivi”: trasportano valore, senza parteciparvi. È così che, a suo avviso, si entra in una fase che definisce di parassitismo industriale: «un modello in cui chi investe non guadagna e chi guadagna non investe».
Le conseguenze sono rilevanti: margini che si assottigliano, investimenti a rischio, capacità innovativa che si riduce. E questo accade proprio mentre la domanda di banda esplode, lo streaming si moltiplica, i servizi digitali si affermano sempre più. In altre parole, cresce la domanda, ma non cresce in proporzione il ricavo per chi trasporta.
Nel contesto italiano, va aggiunta la questione dell’equità regolamentare: le Telco sono soggette a obblighi specifici (licenze, obblighi di copertura, fiscalità, obblighi di sicurezza) che le piattaforme non sempre hanno nella medesima misura. Questo squilibrio acuisce il fenomeno dell’asimmetria economica.
In questo scenario, Labriola lancia un monito: non si tratta solo di business, ma anche di sovranità digitale. Se l’ospite – la rete – muore, muore anche l’ecosistema. Senza reti solide, il digitale si ferma. E se il digitale si ferma, si ferma l’Italia.
Le condizioni per riattivare la simbiosi industriale
Non tutto è drammatico, e forse è davvero possibile costruire una via d’uscita. Labriola individua tre modelli possibili: commensalismo consapevole, mutualismo gestito, simbiosi potenziata.
Nel dettaglio: le Telco possono offrire modelli di caching, interconnessione, ottimizzazione condivisa con le piattaforme; possono entrare nel valore aggiunto – cloud, sicurezza, AI – e collaborare; possono infine trasformarsi in partner industriali su edge computing, gestione dati, qualità del servizio. Il percorso non è ideologico, ma strategico.
Le condizioni per far sì che tutto questo diventi realtà sono chiare:
- Ridefinire la neutralità: non tutti i bit costano uguali. Serve una neutralità «proporzionale» che tuteli la libertà ma riconosca il costo della capacità.
- Favorire il consolidamento: troppi operatori con margini troppo sottili non garantiscono la scala necessaria per investire.
- Level playing field europeo: stesse regole, stesse responsabilità, stessa fiscalità per chi compete nel medesimo spazio digitale.
- Accordi di valore tra Telco e Ott: revenue-sharing su caching, edge, qualità del servizio, non sussidi ma equità industriale.
- Reti intelligenti: la rete del futuro deve essere “data-driven”, non solo “bit-driven”: AI, automazione, sostenibilità energetica.
Questi pilastri non sono una rivendicazione corporativa fine a sé stessa: raccontano una visione di sistema in cui le infrastrutture, il dato, le applicazioni e il valore economico si riallineano.
Il contesto italiano e le implicazioni regolamentari
Guardando all’Italia, il messaggio acquista ancora maggiore urgenza. Come già segnalato da Labriola in altri interventi, il settore Tlc è vittima di uno squilibrio “insostenibile” tra costi in aumento e ricavi in contrazione.
Il quadro regolamentare, nato nell’era liberalizzatrice e orientato al massimo abbassamento dei prezzi per i consumatori, oggi appare poco compatibile con la realtà degli investimenti in fibra, 5G, infrastrutture digitali. Il manager lo sintetizza così: «non possiamo normare il presente – e meno ancora il futuro – guardando nello specchietto retrovisore».
Se si considera che l’Italia deve ancora compiere un grande salto in fibra ottica, rete 5G stand-alone, edge cloud e servizi sovrani, allora appare chiaro che l’ecosistema delle Tlc non può più accontentarsi di trasportare: deve partecipare al valore generato.
Inoltre, il modello europeo richiede una riflessione: la direttiva e gli atti regolamentari imminenti – come il Digital Networks Act (Dna) – ridefiniranno il quadro competitivo e infrastrutturale.
Il rischio è che la regolazione ex ante – guidata da obblighi e ingerenze preventive – vada a sedimentare uno status quo sfavorevole alle infrastrutture che hanno bisogno di margini e scala per investire. Le richieste dell’ecosistema delle reti sono nette: una revisione dell’attuale regime e un passaggio verso modelli più orientati all’investimento e alla competitività.
Le Tlc pilastro strategico della crescita del Paese
Spesso si considera il comparto delle telecomunicazioni come tecnico, “dietro le quinte”. Ma la realtà è che la rete è infrastruttura strategica per l’economia, per lo Stato, per la democrazia digitale. Come evidenzia Labriola: «Il digitale ha bisogno delle reti come la vita ha bisogno del sangue che la nutre».
Quando la rete non è sostenibile, il corpo del digitale si ferma. E se si ferma il digitale, si ferma l’Italia. È un’affermazione che sembra estrema, ma coglie un punto vitale: infrastrutture inefficienti o in sofferenza non sono solo un problema aziendale, ma un freno alla competitività, all’innovazione, alla sovranità nazionale.
L’Italia ha bisogno di reti in fibra, 5G, edge cloud, data-center sovrani, automazione, AI: tutti elementi che poggiano su un’infrastruttura efficiente, adeguata e sostenibile. Un settore Tlc che non regge non è solo un fatto aziendale, ma un vulnus nazionale.
Il contributo del monito di Marina Berlusconi
È interessante rilevare come il contributo di Marina Berlusconi, pur provenendo dall’editoria, offra una lente che travalica il singolo settore e tocca il tema più ampio del potere digitale. Il suo ragionamento che «quella di un mercato è veramente libero solo quando risponde a regole. Non troppe e soprattutto giuste» si riverbera nella riflessione di Labriola sulle infrastrutture.
Quando afferma che «mentre i media tradizionali pagano le tasse, rispettano le leggi, tutelano il diritto d’autore e i posti di lavoro … le piattaforme prosperano in un far-west dove nessuno risponde di quello che ha scritto, l’importante sono i clic», sta ponendo l’accento sul tema dell’equità regolamentare e fiscale. È proprio quell’idea – che chi partecipa al sistema debba rispettare regole, obblighi, dare valore – che Labriola porta dentro l’ecosistema Tlc: non chiediamo protezione, chiediamo equità.
Questa intersezione tra editoria e infrastruttura digitale è significativa: non si tratta solo di chi produce contenuti o di chi trasmette bit, si tratta di quale modello di digital economy si vuole costruire, con quali regole, con quali modalità di partecipazione al valore.
Gli scenari per l’Italia
Da qui emergono due scenari opposti. Il primo è quello che vede reti affaticate, investimenti ridotti, piattaforme che accumulano valore fuori dal sistema, margini in calo per gli operatori di infrastruttura, competitività nazionale compromessa.
Il secondo è quello della “rinascita”: infrastrutture solide, regolazione moderna, collaborazione attiva tra Telco e Ott, nuovi modelli di business e catene del valore che riconoscono la partecipazione delle reti al valore generato. In questo scenario, l’Italia può giocare da protagonista nella digital economy europea: fibra, 5G, edge, cloud, data-sovereignty.
Il lavoro da fare non è solo tecnico o tecnologico: è industriale, regolamentare, culturale. Serve che le istituzioni, il mercato, le aziende, gli investitori, tutti insieme, comprendano che le reti non sono un costo da minimizzare ma un asset da valorizzare. Serve che le regole non siano un freno ma un abilitante: dal principio della neutralità, al concetto di equità, al riconoscimento dei costi della capacità, alla valorizzazione della qualità.
Il monito di Labriola è chiaro: “Non possiamo accettare un modello dove gli uni volano e gli altri scavano. Serve equilibrio, corresponsabilità, visione.” Se queste parole saranno ascoltate, allora potremo davvero costruire una nuova simbiosi: tecnologica, economica e culturale. Altrimenti, il rischio è che le infrastrutture diventino il tallone d’Achille del Paese digitale.
Un nuovo modello industriale
Il commento di Pietro Labriola rappresenta una riflessione di grande rilevanza per il settore delle telecomunicazioni, e non solo. Alla base c’è una domanda semplice ma cruciale: chi paga per le reti, chi le finanzia, chi le mette in piedi, deve partecipare al valore che queste reti generano. Se così non è, il modello industriale è rotto.
La lettera di Marina Berlusconi funge da stimolo: non solo per l’editoria, ma per tutta la filiera digitale. Il nesso che Labriola costruisce tra infrastrutture, applicazioni, piattaforme, regolazione, investimenti, è un richiamo forte alla necessità di ri-costruire la catena del valore, con equità e visione.
In un’epoca in cui la domanda di connettività esplode, in cui la digitalizzazione permea ogni settore, non possiamo permetterci che le reti restino tubi passivi. Le Telco devono ri-ritornare protagoniste, partecipi, protagoniste del valore che contribuiscono a generare. E il Paese non può restare spettatore di questa trasformazione: deve guidarla, con regole adeguate, investimenti forti e una cultura industriale all’altezza della sfida.