Il dibattito sul fair share, o meglio sulle network fee – le tariffe che gli OTT dovrebbero o potrebbero pagare alle telco per far viaggiare i contenuti sulle reti tlc – non è una novità di questi ultimi anni. Ma la svolta è rappresentata dai recenti cambiamenti tecnologici che hanno ridefinito la struttura dell’internet globale e, in particolare, l’ascesa delle Content delivery network (Cdn), dei sistemi di caching e delle strategie di ottimizzazione dei flussi di traffico. Queste innovazioni, infatti, hanno modificato i rapporti tra telco e fornitori di contenuti.
È quanto si legge in un’analisi internazionale firmata da Fiona Alexander, policy expert con una lunga esperienza internazionale nel campo della governance di internet e delle politiche digitali. Alexander offre una ricostruzione approfondita dell’evoluzione del dibattito sulle network fee, che prevede contributi economici a carico dei fornitori di contenuti e servizi online per l’utilizzo delle infrastrutture degli operatori di telecomunicazioni.
Indice degli argomenti
Network fee, un dibattito lungo venti anni
Il report “Network Fees Redux” di Fiona Alexander offre una ricostruzione approfondita di oltre venticinque anni di scontri politici e regolatori attorno all’idea delle cosiddette network fee, cioè la proposta d’introduzione di un pagamento obbligatorio da parte delle grandi piattaforme digitali agli operatori di telecomunicazioni per il traffico dati generato dagli utenti.
Il tema emerge nei primi anni Duemila, nel pieno della transizione dai sistemi telefonici tradizionali alla rete Internet a larga scala. Con la rapida crescita del traffico dati, molti Stati e operatori iniziano a interrogarsi sulla distribuzione dei costi relativi alla gestione e allo sviluppo delle infrastrutture.
Alexander tuttavia sostiene che questa proposta, ripresentata ciclicamente dal 2000 a oggi, sia una politica anacronistica, basata su logiche tipiche dei monopoli telefonici del passato e incompatibile con il funzionamento tecnico ed economico dell’internet moderno.
Va sottolineato che lo studio ha beneficato di un finanziamento della Computer & Communications Industry Association (Ccia Europe), ma anche di un grant di E+Europe che ha garantito l’indipendenza dell’autrice, come si legge nel report.
Il dibattito in sede Itu
In questo quadro, le sedi internazionali, in particolare l’International Telecommunication Union (Itu), diventano luoghi di confronto per valutare se introdurre meccanismi tariffari o lasciare prevalere gli accordi commerciali bilaterali tra operatori.
Il report mostra come questo dibattito sia apparso per la prima volta alla conferenza Itu del 2000 a Montréal, con la proposta Icais, per poi riemergere nel 2005 al World Summit on the Information Society e nuovamente nel 2012 al Wcit di Dubai, dove prese la forma di un tentativo dell’associazione degli operatori europei Etno di proporre un modello “sender pays” per l’interconnessione internet.
Tutte queste iniziative furono respinte dalle delegazioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che giudicarono tali modelli inefficaci e pericolosi, perché avrebbero comportato un arretramento tecnologico e avrebbero favorito distorsioni di mercato e discriminazioni nel traffico Internet.
Le tariffe di rete contrastano con internet aperto
Gli operatori telefonici sostengono che le piattaforme digitali generino volumi di traffico insostenibili e non contribuiscano ai costi delle infrastrutture. Tuttavia, Alexander evidenzia come gli studi indipendenti dimostrino il contrario: la crescita del traffico è costante ma non esplosiva, i costi operativi degli operatori aumentano in misura marginale rispetto ai volumi gestiti, e soprattutto le big tech investono massicciamente in infrastrutture globali – come cavi sottomarini, data center e sistemi di caching – che riducono i costi delle telco stesse.
Secondo il report, imporre network fees significherebbe ribaltare il funzionamento dell’internet aperta, trasformando una rete basata su scelte tecniche efficienti in un sistema di rendite regolatorie.
Il ruolo delle Cdn e dell’ottimizzazione del traffico internet
Una parte centrale dell’analisi è dedicata ai cambiamenti tecnologici che hanno ridefinito la struttura dell’Internet globale. L’autrice approfondisce il ruolo delle Content delivery network (Cdn), dei sistemi di caching e delle strategie di ottimizzazione dei flussi di traffico, mostrando come tali innovazioni abbiano modificato i rapporti tra telco e fornitori di contenuti.
Viene inoltre evidenziato come internet si sia storicamente sviluppato attraverso un modello di interconnessione basato su accordi volontari tra reti, concepiti per garantire interoperabilità e continuità di servizio a livello globale.
Il dibattito sulla network fee in Europa
Il report dedica un capitolo specifico all’Europa, dove il tema delle network fee ha conosciuto una nuova fase di attenzione istituzionale.
L’autrice afferma, infatti, che negli ultimi anni, complice un clima politico caratterizzato da un forte orientamento regolatorio nei confronti delle piattaforme statunitensi, alcuni operatori hanno riproposto il concetto di “fair share”, sperando di inserirlo nella futura legislazione europea sulle reti digitali.
Tuttavia, Alexander evidenzia che una tale scelta comporterebbe rischi enormi: dalla violazione della neutralità della rete all’aumento dei costi per consumatori e imprese, fino al deterioramento delle relazioni transatlantiche, poiché nel 2025 l’UE si è impegnata formalmente con gli Stati Uniti a non introdurre tariffe di rete.
Il caso italiano: l’intervento di Agcom sulle Cdn
Un elemento nuovo e particolarmente rilevante è rappresentato dal caso italiano e dall’intervento dell’Agcom. A seguito dei disservizi nella trasmissione delle partite di Serie A sulla piattaforma Dazn e dell’istruttoria avviata dall’Agcom con la delibera n. 206/21/CONS, nonché del successivo tavolo tecnico, Dazn ha scelto di dotarsi di un’autorizzazione generale tipica degli operatori di telecomunicazioni.
Nel 2025, l’Autorità ha pubblicato la delibera n. 207/25/CONS con la quale ha esteso, alla luce del caso DAZN, il regime di autorizzazione generale alle content delivery network (Cdn), riclassificandole come soggetti rientranti nel perimetro del Codice delle comunicazioni elettroniche. Secondo Alexander, questa scelta, pur motivata dall’obiettivo di garantire qualità di servizio e tutela degli utenti, rappresenta di fatto un precedente che apre la porta a una possibile rilegificazione dei rapporti di interconnessione Internet.
Il caso Agcom è emblematico, scrive l’esperta, perché dimostra come, attraverso interventi regolatori indiretti, sia possibile reintrodurre nella pratica il concetto di network fee anche senza dichiararlo esplicitamente. Imponendo obblighi tipici degli operatori di rete a soggetti che operano sulla distribuzione dei contenuti, si crea un terreno fertile per richieste future di contributi economici, tariffe o meccanismi di risoluzione obbligatoria delle controversie che potrebbero sfociare in forme di pagamento forzato alle telco.
L’autrice riporta anche l’immediata reazione positiva di alcuni operatori, che hanno definito la decisione dell’Agcom “un punto di svolta”, proprio perché apre spazi di intervento finora impossibili a livello europeo.
Network fee, l’esempio (negativo) della Corea del Sud
Particolare attenzione è dedicata alla Corea del Sud, ad oggi l’unico paese ad aver introdotto in modo esteso un modello assimilabile alle network fee. Il report presenta i dati disponibili sull’evoluzione del mercato sudcoreano: dall’andamento dei prezzi al consumo alle strategie degli operatori, fino agli effetti sulla localizzazione del traffico e sulla qualità dei servizi digitali.
La Corea del Sud viene proposta come caso di studio per valutare le possibili ricadute di modelli analoghi in altre aree del mondo. Infatti, gli effetti sono stati negativi sotto ogni profilo: aumento dei prezzi per i consumatori, rallentamento delle connessioni, diminuzione della qualità dei contenuti disponibili, deviazione del traffico verso altri Paesi per evitare i costi e un sensibile calo negli investimenti infrastrutturali.
L’esempio coreano viene citato da Alexander come prova concreta che il modello non solo non migliora la sostenibilità economica delle reti, ma compromette la qualità del servizio e la competitività del settore digitale.
Il Digital Networks Act e il rischio che l’Europa resti indietro
Il report si conclude sottolineando che il dibattito sulle network fee rimane aperto, soprattutto in vista della prossima revisione della normativa europea sulle telecomunicazioni, che culminerà con la proposta di Digital Networks Act, prevista per gennaio 2026.
Alexander sottolinea che un percorso regolatorio verso le tariffe di rete rischia di compromettere l’architettura aperta di internet, generando inefficienze, costi più elevati per i cittadini e minore innovazione per l’intero ecosistema digitale.
In un momento in cui l’Europa riconosce di essere rimasta indietro nella corsa tecnologica globale, la scelta strategica non dovrebbe essere quella di creare nuovi oneri per gli attori più dinamici del mercato, ma di favorire investimenti, concorrenza, interoperabilità e standard aperti.
Per Alexander, la lezione dei venticinque anni di dibattiti è chiara: ogni volta che si è tentato di piegare internet alle logiche regolatorie delle vecchie reti telefoniche, il risultato è stato un peggioramento del servizio e un freno allo sviluppo.
La vera sfida per l’Europa non è introdurre “tasse digitali mascherate”, ma costruire un ecosistema moderno, competitivo e innovativo. Solo un internet aperto, resiliente e basato su standard globali può sostenere la crescita economica e tecnologica del continente, afferma il report.









