IL FUTURO DI TELECOM ITALIA

Ventre: “Telecom Italia giochi la partita dei contenuti”

Il docente dell’Università di Napoli: “La compagnia deve guardare agli Ott. La sfida è creare una Internet tv interattiva e social”. E su Tim Brasil: “Vendere a patto che gli introiti servano per fare nuovi investimenti in Europa”

Pubblicato il 17 Set 2014

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“La partita di Telecom Italia si gioca tutta sul campo dei contenuti”. Giorgio Ventre, docente di Ingegneria Informatica all’Università di Napoli “Federico II”, disegna un futuro “Ott oriented” per il gruppo.

La strada che Telecom deve percorrere è quella dei media dunque?

In linea generale sì. È necessario che Telecom Italia cavalchi l’onda delle convergenza telco-produttori di contenuti per tornare ad essere competitiva a livello internazionale. I movimenti nel mercato delle Tlc sconfinano sempre più nel settore dei media, tradizionali e non. Basti ricordare che British Telecom ha sborsato 900 milioni di sterline per comprare i diritti tv della Champions League e che Netflix, sbarcando in Europa, si sta attrezzando per stringere accordi con telecom operators come la francese Bouygues. Si tratta di azioni che raccontano in maniera plastica cosa sta succedendo su questi due mercati.

Telecom Italia ci ha provato con Vivendi, ma il tentativo non è andato a buon fine. Il gruppo ne esce con le ossa rotte?

Ma no, l’operazione Vivendi è stata gestita in maniera intelligente dal management per due motivi. Il primo perché i vertici aziendali hanno intuito che la strada da percorrere è quella convergenza e poi perché – proprio non rilanciando sul prezzo – si sono comportati come manager di una public company.

In che senso?

Nel senso che quell’operazione avrebbe avuto un senso strategico e una sostenibilità economica se fosse stato rispettato un range finanziario ragionevole che desse garanzie agli azionisti. Come avviene in tutte le public company. Poi non va dimenticato che quell’offerta per Gvt è stata fatta “nonostante” Telefonica, al contempo competitor in Brasile e azionista di maggioranza di TI. Diciamo che la sconfitta Vivendi ha, di fatto, spianato ancora di più la strada verso la trasformazione di Telecom Italia un una public company.

Tornando al futuro, lei auspica un accordo con Mediaset proprio in nome della convergenza?

Mediaset è un broadcaster puro e come tutti broadcaster è ancora ancorato all’idea che bisogna tenere “incollati” alla tv gli utenti invece che scommettere su una totale integrazione Internet-Tv-contenuti, basata su format innovativi, su una visione social delle modalità di fruizione e su una forte interazione dell’utente. Per fare questo è necessario un grande mutamento culturale nei broadcaster e nelle telecom, ma questo è un problema che riguarda tutta l’Europa non solo l’Italia. Ci vorrà forse del tempo per arrivare a una convergenza “totale” ma quella è la direzione che sta prendendo il mercato. Telecom non può rimanere fuori da questa partita.

Il caso Vivendi ha acceso di nuovo i riflettori sul Brasile: vendere o no Tim?

Tim Brasil è un pezzo di asset industriale di Telecom Italia, non una controllata come un’altra. Vendere significherebbe in qualche modo depauperare le economie di scala.

E se arrivasse l’offerta jumbo, quella che non si può rifiutare?

Bisogna capire che cosa si vuole fare con gli introiti della vendita. A mio avviso, ha un senso vendere Tim Brasil a patto che quelle risorse vengano investite per spingere sul consolidamento, guardando a partnership o a M&A con altri player europei sia telco che Ott. Se non si fa questo c’è il grosso rischio è che Telecom venga relegata al mercato domestico diventando essa stessa facile preda.

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