Bevilacqua (Ad Cisco Italia): “L’innovazione è coraggio”

“Quando di parla di innovazione si finisce a parlare di banda larga. E’ chiaro che serve più banda, ma non basta per la crescita del Paese”

Pubblicato il 12 Ott 2009

Fare l’amministratore delegato di Cisco in Italia non è impresa
semplice. Per tanti motivi: su tutti che, come country, l’Italia
è sempre stata di successo rispetto anche ad altri paesi dove i
mercati sono più ricchi. Insomma, un punto di eccellenza nel
mercato europeo. E per David Bevilacqua, che succede a Stefano
Venturi, al timone della vision italiana da 13 anni, la sfida sarà
sicuramente impegnativa. Ma il nuovo Ad, dal suo ufficio di
Vimercate, ha già in mente delle linee guida: da un lato “una
grande attenzione al cliente”, dall’altro una
“verticalizzazione”, sia nell’approccio col privato che con
la Pubblica amministrazione.

Dopo anni in giro per l’Europa, com’è tornare in
Italia? La trova cambiata?

Di sicuro la vedo con occhi diversi: quando uscivo, mi sono
appassionato a chiedere come la vedessero da fuori, per cercare di
guardarla con gli occhi dei Paesi dove lavoravo, in modo da farmi
un’idea che non fosse solo da italiano. E l’ho vista diversa da
come ero abituato a vederla: come un Paese riconosciuto per il
brand, per il made in Italy, per l’eccellenza di prodotto, ma mai
percepita come un country dove ci fosse eccellenza di processo. Un
Paese dove sembra difficile fare business, attrarre capitali,
soprattutto rispetto agli stati dell’Europa dell’Est, dove
vivevo in ambienti con una grande crescita del Gdp che era in
funzione di capitali esteri. Capitali che in Italia è difficile
attrarre, come è difficile talvolta trattenere i talenti.

Un’Italia poco dinamica, dunque. Eppure per voi continua
ad essere un country di eccellenza, quali sono i punti su cui fate
leva?

Credo che per operare in Italia serva innanzitutto una grande
attenzione al cliente, che è una delle practice che abbiamo
sviluppato qui ed esportato anche in Europa. Siamo focalizzati sul
cliente e sul suo business. Serve un processo molto spinto di
verticalizzazione, in cui ci si muove su un’expertise di
industria più che su un modello geografico tradizionale. Direi che
è questa la chiave per agganciare le Pmi italiane: non vendere
prodotti ma trovare soluzioni per il cliente, per le sue
esigenze.

Per “merito” della crisi, comunque, sembra che anche in
Italia sia arrivato un momento di cambiamento.

Ci sono grandi cambiamenti, certo. Ma ciò che è importante è la
facilità con cui riusciamo a guidare questi cambiamenti. Il
problema è che il nostro sistema, nonostante in questo momento ci
siano buone idee, intenzioni e investimenti, insomma, ottime
azioni, tuttavia spesso queste possono rischiare di restare
ingessate: è necessario trovare un diverso approccio al modo in
cui questi investimenti vengono indirizzati per evitare
un’eccessiva burocratizzazione. Bisogna assolutamente evitare
che, dopo il disegno strategico, ci si fermi di fronte a processi
molto complicati, che spesso fanno diventare le scelte più di
costo che di qualità, portando così al rischio di vanificare le
buone intenzioni.

Magari servirebbe anche una minor burocratizzazione nello
stanziamento dei fondi.

Certo, rendere disponibili dei fondi dovrebbe andare di pari passo
col rendere facile accedervi: deve esserci una filiera che funziona
e che deve essere semplificata. Spesso, tuttavia, quando si parla
di innovazione si finisce a parlare di banda larga. È chiaro che
serva più banda, più pervasiva, che arrivi ovunque, ma ci
vorrebbe più coraggio delle aziende. L’innovazione non passa
solo attraverso l’infrastruttura, ma anche tramite il coraggio:
circa il 35% delle aziende italiane ha ancora il Cio che riporta al
Cfo, ovvero vive l’II come costo e non fonte di profitto.

Tuttavia, nella crisi, le Pmi hanno provato a reagire anche
tramite investimenti in IT.

È sicuramente vero: per ovvie ragioni, le aziende medio-piccole
sono più flessibili e hanno provato a reagire immediatamente.
Alcune Pmi hanno una forte spinta all’innovazione per cercare uno
spunto competitivo e spesso è l’imprenditore in prima persone
che decide, senza considerare che non hanno una grande legacy da
smontare. È chiaro che le dimensioni delle aziende condizionano
questo tipo di scelta: le grandi, ad esempio, più che tagliare i
costi, cercano progetti che possano garantire un Roi (un ritorno
dell’investimento) entro i 12 mesi, mentre in un periodo normale
di mercato guardavano ai tre anni. L’incertezza sul mercato ha
fatto sì che tutto fosse visto per un ritorno in brevissimi
termini.

Una grande spinta ad un maggior ruolo dell’IT in Italia,
secondo molte persone, dovrebbe venire dalla Pubblica
amministrazione, e in effetti il ministro Brunetta si sta muovendo
in questo senso. Voi come vivete questa partita?

Riguardo alla PA credo che in Italia si stia facendo un ottimo
lavoro, soprattutto dal punto di vista del posizionamento.
Personalmente, come ad di Cisco, guarderò con particolare
attenzione ai vertical market anche all’interno del public
sector, non solo in una logica orizzontale: certo, ci saranno le
grandi reti, i grandi progetti, ma vorrei che puntassimo molto
anche sulle adiacenze. Per esempio, per me, la sanità sarà un
punto su cui focalizzarci: l’integrazione delle tecnologie ci
permetterà di dare servizi nuovi, che dovranno essere user frendly
così da essere ben sposati dai medici. Abbiamo individuato trenta
adiacenze in cui vorremmo essere presenti, anche lavorando con
alcuni partner: penso alla giustizia, allo sport e
all’entertainment, solo per fare un esempio.

In ogni caso, una maggior informatizzazione del Paese non
può che coincidere con un grosso cambiamento culturale. Cosa si
può fare per spingere in questa direzione, anche dal punto di
vista delle aziende?

Bisogna totalmente cambiare il paradigma di riferimento, e lavorare
su quello che si chiama “trusted model”. Un cambiamento che non
riguarda solo, ad esempio, il lavoro da casa, che sta prendendo
piede in maniera molto lenta. Gli imprenditori devono capire che
avere un sistema di controllo ti porta ad avere costi più alti e
scarsi risultati: se lavori in trusted model, ovviamente ci sarà
qualcuno che, sui grandi numeri, non lavora.
Però dopo la crisi, il mondo non tornerà a lavorare come prima:
ci sarà la necessità di essere più produttivi, di usare sistemi
di collaborazione. Serve disciplina. E serve capire che con
l’utilizzo di determinate tecnologie sei portato ad essere più
produttivo. È un problema di change management e di cultura: non
è un processo che avviene nel giro di una notte. Per mia
esperienza, qui ho visto un’importanza fondamentale attribuita a
leadership, management e attenzione alle risorse umane: non basta
fare innovazione di prodotto, devi farla di processo.

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