Nuovo Cad, occasione persa: passi indietro sul software libero

Le recenti modifiche alle regole sugli acquisti della PA indeboliscono la portata innovativa e la spinta verso l’openness. Sbagliato non seguire l’esempio del Regno Unito e ignorare la strada tracciata dall’Ue

Pubblicato il 07 Mar 2016

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Qualcuno lo ha battezzato CAD 3.0 e forse anche questo, come i software nelle loro nuove release, ha bisogno di un “debug” ovvero di una correzione delle cose che non vanno. Infatti, dopo l’approvazione della prima bozza lo scorso 21 gennaio, diversi sono stati i commenti non entusiastici e le richieste di modifica.

Obiettivo del “nuovo CAD” dovrebbe essere quello di semplificare la normativa e renderla maggiormente in linea con le disposizioni del Regolamento UE 910/2014, conosciuto come eIDAS, che entrerà in vigore il prossimo 1° luglio. Nel fare questo, mentre per alcuni aspetti si sono fatti passi avanti, per altri, come sul software libero, si è dato il via al ballo del gambero. La modifica all’art. 68, che regola l’acquisto di software in PA obbligando ad un’analisi comparativa delle soluzioni che dovrebbe favorire open source e riuso, lo ha di fatto indebolito.

Da questo sono stati infatti abrogati gli articoli 2, 2-bis e 4 ovvero i riferimenti a interoperabilità, repertorio di formati aperti e parere preventivo di Agid possibile da chiedere per le PA prima di procedere con l’acquisto di software. Per ciò che concerne interoperabilità e formati aperti, il riferimento era importante perché, come scrive Alessandro Rubini, “un sistema è interoperabile quando è possibile accedere ai dati o fruire dei servizi da altri sistemi, per esempio usando formati di dati “aperti” per la gestione documentale. La modifica del CAD va a colpire il punto più critico per i monopolisti, perché in pratica la preferenzialità per il software libero viene facilmente elusa”. In questo modo il nostro CAD, che aveva la fama di essere tra i migliori d’Europa con le clausole preferenziali per il software libero e i requisiti di interoperabilità per ogni nuovo programma che entrava in PA, si plasma a favore del lock-in da fornitore e da software.

Proprio nel momento in cui si poteva fare una scelta a favore dell’openness seguendo l’esempio del Regno Unito che ha adottato il formato aperto ODF (Open Document Format) per tutti i documenti della PA. Proprio nel momento in cui si poteva prendere spunto dalla Commissione Europea che nel 2012 ha incentivato l’uso di standard aperti stimando un risparmio nel settore pubblico di un miliardo di euro l’anno.

Proprio nel momento in cui si poteva dare una spinta propulsiva all’open source che avrebbe consentito alle PA di essere indipendenti e fare, quindi, scelte migliori in quanto non vincolate. Proprio nel momento in cui il ministero della Difesa annuncia la migrazione a software libero LibreOffice dimostrando che è possibile risparmiare e reinvestire in modo più intelligente denaro pubblico. Proprio nel momento in cui il Parlamento europeo, nella Risoluzione che ha dato seguito a quella sulla sorveglianza elettronica di massa dei cittadini dell’Unione, sostiene la necessità di migrazione verso soluzioni software open source attraverso l’introduzione di un criterio di scelta obbligatoria delle soluzioni open a favore di quelle proprietarie. Proprio quando si sarebbe potuta estendere l’applicazione del 68 anche alla progettazione e sviluppo di soluzioni in senso più ampio. Proprio quando si sarebbe potuto ampliare il concetto di open chiamando in causa gli open standard.

Proprio nel momento in cui il tema della libertà digitale sembra passare in secondo piano per lasciare spazio alla discutibile gratuità di accordi siglati con grandi multinazionali. Proprio nel momento in cui la frase di una nota pubblicità “La libertà di non dover scegliere” suona come un oscuro presagio.

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