Telecom–Enel: il cubo di Rubik di Agcom

Quali regole per l’affitto wholesale della rete pubblica nelle aree C e D? L’Authority dovrà districarsi in un terreno complesso. Difficile accontentare tutti. Ma una soluzione c’è

Pubblicato il 24 Mar 2016

Gildo Campesato

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Enel ha annunciato che a maggio partirà con il piano fibra ottica in accordo commerciale con alcuni operatori telefonici, a partire da Vodafone e Wind. Dell’intesa ha necessità assoluta per evitare che, dopo la posa, la fibra rimanga spenta per mancanza di clienti. Vale per le aree A e B dove c’è mercato, ma soprattutto in quelle C e D dove le abitazioni sono pochine e scarsamente concentrate. Dove quindi, non c’è un rapporto costi/benefici favorevole.

Nelle aree C e D il governo ha deciso di mettere da solo i soldi necessari per le nuove reti ultrabroadband e di affidare a Infratel la realizzazione delle gare per la costruzione e la successiva gestione della rete. Le condizioni sono ancora in corso di definizione, ma alcuni paletti sembrano posati. Ad esempio, anche per effetto degli accordi con le Regioni, non ci dovrebbe essere (condizionale d’obbligo) una sola gara centralizzata, ma si andrà presumibilmente per competizioni territoriali. Sembra anche acclarato che realizzazione della rete, gestione e manutenzione faranno parte di un unico capitolato e non verranno separate in bandi distinti.

Enel si candida ad intervenire ovunque anche nelle aree C e D (sia pur come realizzatore/gestore e non come proprietario del network), forte della capillarità dei suoi armadi di strada elettrici e dell’estensione della sua rete aerea che consentono di portare la fibra nelle aree periferiche a costi ritenuti vantaggiosi. Ma non è detto che abbia la strada spianata. È probabile che altri si presentino. Ad esempio installatori tradizionali come Sirti, tanto per fare un nome, ma anche player diversi. Come Ericsson, per fare un altro nome, che ha già partecipato, vincendola, ad una gara per l’ultrabroadband in Sardegna.

Sullo sfondo resta aperto il tema regolatorio. Una patata bollente che è nelle mani dell’Agcom. Il consiglio dell’Autorità per le Comunicazioni ha già cominciato ad affrontare la questione, ma la delibera resta in fieri.

La decisione è estremamente delicata. Si tratta di definire le condizioni di prezzo e di servizio dell’infrastruttura posata interamente con fondi pubblici. Una delle classiche decisioni in cui come si fa si sbaglia scontentando tutti, tanti sono gli aspetti da tenere in considerazione.

Prendiamo il caso che l’Authority decida di tenere basso il costo dell’accesso wholesale. La conseguenza sarebbe una riduzione del margine riconosciuto al gestore della rete ed il trasferimento di una quota maggiore di ricavi agli operatori telefonici.

Tali vantaggi verrebbero trasferiti ai consumatori? Nel quadro italiano, appare altamente improbabile che gli operatori offrano ai propri clienti tariffe differenziate a seconda delle aree geografiche. E non solo per difficoltà tecniche. Se ciò avvenisse, le polemiche sarebbero inevitabili: tariffe più basse nelle aree dove la rete è stata costruita con soldi solo pubblici e più alte dove invece sono intervenuti i privati con fondi propri? Sarebbe come trasferire tutti i costi di rischio di costruzione della rete ai consumatori delle aree nere, lasciandone indenni quelli che vivono nelle aree bianche.

Se vantaggi dovessero esserne per l’insieme dei consumatori, essi deriverebbero eventualmente dalla competizione di prezzo nazionale fra operatori che negli abbonamenti proposti ai clienti potrebbero includere i minori costi sostenuti nelle aree bianche dove non hanno dovuto costruire la rete. Il tutto, però, a spese dello Stato e dei margini ridotti del gestore della rete. Difficilmente sostenibile.

Altrettanto inimmaginabile appare trasferire al gestore della rete (chiunque sarà) una rendita di posizione aggiuntiva dovuta al fatto che non ha capex da ammortizzare (gli investimenti li ha sostenuti lo Stato), ma solo costi operativi da sostenere.

Un guazzabuglio senza giusta soluzione? Probabilmente sì, a meno che non si preveda che la rete costruita dallo Stato debba avere un qualche ritorno, un claw back che ne valorizzi l’investimento. Ovviamente, anche in considerazione delle specificità di mercato delle aree C e D, si possono prevedere ammortamenti molto lunghi e contenuti nella dimensione. E con formule flessibili di affitto legate all’effettivo andamento della domanda di fibra.

Ad esempio, si potrebbe prendere come parametro base l’offerta di riferimento di Telecom modulandola alle differenti condizioni di mercato e di costruzione della rete nelle aree bianche. Tra l’altro, questa soluzione avrebbe il vantaggio di poter essere aggiustata di anno in anno dall’Authority, consentendo un fine tuning regolatorio legato all’effettivo andamento della domanda del mercato.

Sarebbe un modo per evitare extrarendite dei gestori della rete o degli operatori. Aggiungendovi un incasso per lo Stato che, avendo costruito a sue spese il network, potrebbe giovarsi di un qualche ricavo da spendere, ad esempio, nei bonus per il stimolare la domanda di broadband o lo sviluppo della cultura digitale. Il tema è intricato ma, come il cubo di Rubik, ha una sua soluzione.

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