La recente decisione del presidente russo Vladimir Putin di firmare una legge per sviluppare un’app di messaggistica statale integrata con i servizi pubblici segna un nuovo capitolo nella crescente corsa alla sovranità digitale.
La Russia, nel tentativo di creare un’alternativa nazionale, sembra percorrere una strada simile a quella della Cina, arrivando però in ritardo, e probabilmente senza possederne la stessa forza tecnologica.
Il provvedimento rappresenta in realtà una duplice realtà: da una parte, è una mossa per affrancarsi da piattaforme straniere come WhatsApp, mentre dall’altra è anche il sintomo di una crisi sistemica dell’innovazione digitale nei Paesi che non possiedono una propria Silicon Valley.
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Stagnazione dell’ecosistema tecnologico interno
L’introduzione forzata di una piattaforma digitale da parte dello Stato, in assenza di una spinta organica del mercato o di un’adozione spontanea da parte della cittadinanza, è infatti indice di una stagnazione dell’ecosistema tecnologico interno.
L’incapacità di generare innovazione dal basso, sostenuta da capitali, ricerca e spirito
imprenditoriale — costringe lo Stato a farsi sviluppatore, finanziatore e promotore di sistemi tecnologici — con un modello dirigista che riecheggia dinamiche sovietiche più che moderne. Eppure, la Russia — come anche l’Unione Europea — rischia di cimentarsi in uno sforzo inutile. I cittadini russi preferiscono piattaforme statunitensi per comunicare e vivere la loro vita digitale.
Il dato culturale
Questo dato non è soltanto tecnologico, ma culturale: indica una penetrazione profonda del capitale americano (rappresentato dalla tecnologia), veicolandone anche la relativa cultura, che inevitabilmente modella comportamenti, abitudini e desideri.
La scelta di non sostenere attivamente Telegram, fondato da due russi (i fratelli Durov), è ancor più rivelatrice.
Telegram è una piattaforma sulla quale il Cremlino non ha controllo diretto, contrariamente a quanto accadrebbe con una app statale. E in un mondo in cui l’infrastruttura digitale è diventata il fondamento della governance e dell’autorità politica, è facile comprendere la necessità di avere il dominio totale su dati, algoritmi, server e protocolli. Una lezione che la Cina ha già compreso da diverse decadi.
Intendiamoci, la volontà di controllo di Mosca o di Pechino non sono certo diverse da quelle di Washington, che tramite normative come il Cloud Act esercita una fortissima giurisdizione sia interna che extraterritoriale su qualsiasi dato gestito da aziende americane.
Una narrativa diversa
La differenza sta nella narrativa: gli Usa promuovono l’ideologia della libertà, ma controllano a monte; la Cina e la Russia (almeno nella volontà) lasciano invece da parte veli ideologici.
In mezzo a questo scenario si colloca la cara vecchia Unione Europea. Ossessionata dal regolamentare le piattaforme digitali, con normative sempre più complesse e vincolanti, ma senza visione strategica e capacità esecutiva.
Siamo più vicini alla Russia di quanto pensiamo, e non solo a livello geografico. Non possediamo campioni industriali in grado di competere con Google, Apple, Meta o Alibaba. Perfino le più ambiziose iniziative di sovranità finanziaria, come l’euro digitale, si appoggiano a fornitori tecnologici statunitensi per la realizzazione dei wallet e dell’infrastruttura sottostante.
La forza normativa della Ue: opportunità o rischio?
L’apparente forza normativa dell’UE, tanto (auto)lodata, si rivela quindi debolezza geopolitica. Mentre cerchiamo di “civilizzare” il cyberspazio con leggi e regolamenti, rimaniamo esposti e dipendenti da potenze esterne che non condividono gli stessi valori o interessi. E se le infrastrutture digitali europee sono dominate dagli Stati Uniti, quelle fisiche sono invece roccaforti della Cina — Huawei il primo vassallo.
La Russia e l’esempio cinese
La Russia vuole indubbiamente seguire l’esempio cinese, non potendo procedere con la strada americana. Riusciranno a costruire un ecosistema come quello cinese, aziende nazionali come Tencent e Alibaba dominano ogni settore del digitale — proprio a partire dalle comunicazioni?
È comunque chiaro che la tecnologia non è più uno strumento neutrale, ma un campo di battaglia per la sovranità. La questione non è più solo “chi possiede i dati?” ma “chi costruisce l’infrastruttura, definisce i protocolli, e decide cosa è possibile fare?”.
La legge firmata da Putin è dunque solo un tassello in un puzzle globale più grande, dove ogni Stato — in forme più o meno trasparenti — cerca di assicurarsi il controllo dell’infrastruttura su cui viaggiano i processi cognitivi e operativi delle proprie popolazioni.