Si apre un vero e proprio braccio di ferro tra le big tech e il fisco italiano, con implicazioni potenziali per la normativa europea sull‘Iva. Meta Platforms, X (ex Twitter) e LinkedIn si sono, infatti, rifiutate di pagare l’Iva sui loro servizi gratuiti, come richiesto dall’Agenzia delle Entrate, e hanno presentato ricorso contro gli avvisi di accertamento inviati dal fisco italiano. Lo riporta Reuters, che cita fonti a conoscenza diretta del dossier.
Lo Stato italiano contesta alle tre big tech Usa il mancato versamento dell’Iva sull’accesso gratuito degli utenti ai loro servizi online. L’Agenzia delle Entrate sostiene, infatti, che le registrazioni gratuite alle piattaforme digitali configurino operazioni imponibili: uno scambio economico tra dati personali degli utenti e accesso a un servizio digitale, assimilabile a una permuta soggetta a Iva. Le big tech hanno respinto questa impostazione e non hanno fornito risposta entro la scadenza prevista alle contestazioni fiscali.
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Iva sui servizi digitali gratuiti, scontro big tech-fisco
L’Italia rivendica dalle big tech un totale di oltre 1 miliardo di euro di Iva non versata, così suddivisi: 887,6 milioni di euro da Meta, 12,5 milioni di euro da X e circa 140 milioni di euro da LinkedIn, per diverse annualità comprese tra il 2015 e il 2021.
Lo scontro si deve al fatto, riferiscono le fonti di Reuters, che lo Stato italiano più che cercare una transazione economica, vuole imporre un principio: quando l’uso gratuito di un servizio genera valore attraverso i dati, questo valore deve essere fiscalmente rilevato.
Secondo la difesa delle big tech, invece, l’accesso gratuito degli utenti ai social network non costituisce una prestazione di servizi e quindi non può essere soggetto a Iva.
Impatti ad ampio raggio sui servizi digitali
Secondo diversi esperti consultati da Reuters, l’approccio italiano potrebbe avere un impatto non solo sulle big tech, ma su quasi tutte le aziende, dalle compagnie aeree ai supermercati agli editori, che collegano l’accesso ai servizi gratuiti sui loro siti all’accettazione dei cookie di profilazione da parte degli utenti.
E potrebbe anche eventualmente essere esteso in tutta l’Ue dove l’Iva è un’imposta armonizzata.
L’Italia pronta a chiedere il parere della Commissione Iva dell’Ue
L’Italia si starebbe infatti preparando come passo successivo a chiedere un parere consultivo alla Commissione europea. L’Agenzia delle Entrate dovrà preparare domande specifiche, che il Ministero dell’Economia invierà poi al Comitato Iva della Commissione Ue, che si riunisce due volte l’anno.
Roma mira a presentare le sue domande per la riunione prevista per l’inizio di novembre, al fine di ricevere i commenti dell’Ue in tempo per la prossima riunione nella primavera del 2026.
Già nel parere 958/2018, il Comitato aveva escluso l’imponibilità Iva per servizi IT forniti gratuitamente, ma ora l’Italia vuole rimettere in discussione quel principio, sostenendo che i servizi digitali delle big tech generano valore economico anche senza un pagamento diretto.
L’annosa questione delle big tech e del fair share
La questione si inserisce anche nel noto braccio di ferro tra telco e over the top, con le aziende delle tlc che contestano condizioni concorrenziali impari rispetto alle big tech ed esigono un contributo agli investimenti di rete.
“Le nostre reti sono la base per un ecosistema digitale forte e competitivo. Investire in 5G, fibra e sicurezza non è solo una necessità, ma una straordinaria opportunità per sostenere la crescita economica e rafforzare il posizionamento dell’Europa nel mercato globale. Ma servono regole adeguate: un quadro normativo che incentivi innovazione, investimenti e consolidamento. Perché senza infrastrutture solide e sostenibili, la transizione digitale rischia di restare un’idea sulla carta. Il punto è chiaro: non possiamo permettere che pochi giganti digitali sfruttino le reti senza contribuire alla crescita. La concorrenza è importante, ma deve andare di pari passo con la sostenibilità del settore”, ha scritto Pietro Labriola, amministratore delegato di Tim, in un post su LinkedIn, redatto a margine della sua partecipazione al Mobile word Congress di Barcellona.
Di fronte a queste questioni, “Le istituzioni europee sono chiamate a scelte decisive: il digitale è molto più che un’industria, è il futuro delle nostre economie e società”, afferma Labriola. “Inaction is not an option. Noi operatori siamo pronti a fare la nostra parte”.
Il dibattito si è spostato ora sul Digital networks act europeo (DNA) che propone di introdurre il cosiddetto “fair share”, cioè l’obbligo per le grandi piattaforme OTT (come Netflix, Google, Meta) di contribuire ai costi delle infrastrutture di rete. Ma la misura è ampiamente contestata – non solo dalle big tech ma di recente anche dal Berec, l’organismo dei regolatori europei, secondo cui non è supportata da alcuna evidenza empirica solida.
Colpo alla globalizzazione fiscali, saltata la minimum tax
Intanto la globalizzazione fiscale ha subito un duro colpo, assestato dal G7 con un accordo che sa di resa nei confronti di Washington: l’esenzione per le multinazionali Usa dalla Global Minimu Tax definita in sede Ocse. Una vittoria piena per Donald Trump e per le big tech americane, che vedono allontanarsi la prospettiva di dover pagare più tasse all’estero. Un accordo che rischia però di compromettere – o almeno riscrivere radicalmente – la portata storica dell’accordo del 2021 sulla tassa minima globale.
L’accordo sarà discusso nelle prossime settimane in sede Ocse, dove quattro anni fa era stato siglato uno dei più ambiziosi trattati di cooperazione fiscale internazionale: la global minimum tax, pensata per porre fine al profit shifting e alle pratiche elusive delle multinazionali. L’obiettivo era semplice ma rivoluzionario: impedire che i giganti del digitale potessero scegliere arbitrariamente la giurisdizione fiscale più vantaggiosa per contabilizzare i propri profitti.
Tra i sostenitori dell’accordo, l’Italia. Il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha definito l’intesa un “onorevole compromesso”. E ha aggiunto: “Protegge le nostre imprese dalle ritorsioni automatiche degli Stati Uniti”. La sua preoccupazione è comprensibile: la ‘revenge tax’ minacciava non solo le grandi multinazionali, ma anche le aziende europee con interessi negli Usa.
A conti fatti, è la Casa Bianca che ha ottenuto ciò che voleva. Secondo le stime, le aziende americane risparmieranno 100 miliardi di dollari in tasse all’estero. Un bottino che fa gola a qualunque amministrazione, ma che in mano a Trump si traduce in un’arma elettorale.