C’è un passaggio che vale più dei 50 milioni di euro (pur importanti) e più dei dieci anni di orizzonte contrattuale: Airbus vuole mettere in discussione una delle dipendenze più profonde dell’industria europea, quella da Amazon, Google e Microsoft. Lo ha detto la vicepresidente per gli Affari digitali del colosso europeo dell’aeronautica, Catherine Jestin, citata dall’emittente francese Bfm, secondo cui il gruppo starebbe preparando una gara per portare applicazioni e dati «mission critical» su un cloud europeo «digitalmente sovrano», con l’obiettivo esplicito di ridurre l’esposizione a norme Usa come il Cloud Act (la legge del 2018 che può obbligare i provider cloud sotto giurisdizione americana a consegnare dati che controllano, anche se quei dati sono conservati in Europa). La partita si aprirà all’inizio di gennaio 2026 su un orizzonte fino a dieci anni.
In controluce, c’è una consapevolezza che molte aziende europee condividono da tempo: cloud e suite collaborative statunitensi sono entrate nella produttività quotidiana, ma il “cuore” dei sistemi resta spesso on-premise o in architetture ibride per ragioni di sicurezza, continuità e controllo. Airbus, oggi, sta verificando se esista un’alternativa europea credibile per fare il salto sul segmento più delicato. E il punto, qui, è già politico. Ma non solo: è industriale. Spostare il cuore applicativo su una piattaforma europea significa alimentare un mercato interno di servizi, competenze e infrastrutture.
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Il cuore dei sistemi: quando il dato è strategia industriale
Airbus sta ragionando sul trasferimento di sistemi che, in un gruppo industriale globale, equivalgono al sistema nervoso: ERP e CRM, strumenti legati alla manifattura e piattaforme di gestione del ciclo di vita del prodotto (PLM). Sono gli ambienti dove passano supply chain, processi di fabbrica, dati di progettazione e integrazione con fornitori e partner, tutto ciò che — se letto o alterato — produce un danno economico e strategico. È anche per questo che Jestin parla di informazioni «estremamente sensibili dal punto di vista nazionale ed europeo».
Qui la sovranità digitale smette di essere una formula astratta e diventa un requisito di progetto: chi controlla l’accesso, sotto quale giurisdizione si applicano obblighi di consegna dei dati, come si gestisce la portabilità, quali garanzie esistono sulla continuità operativa. La sovranità digitale è strumento di potere geopolitico perché definisce chi può esercitare pressione su infrastrutture e dati; è leva di sviluppo perché decide dove si accumulano capacità, investimenti e know-how.
L’“80/20” come stress test per l’offerta europea
La frase più citata di Jestin è «80/20», cioè circa l’80% di probabilità di trovare una soluzione europea che risponda davvero alle esigenze. Tradotto: Airbus vuole farlo, ma non è certa che l’offerta europea – per scala, maturità dei servizi, copertura geografica, resilienza e portfolio applicativo – sia già pronta a reggere carichi di lavoro di questa complessità senza compromessi.
Il dato interessante è che una gara di questo tipo non fotografa soltanto lo stato dell’arte ma lo cambia. La richiesta di proposte dovrebbe partire a inizio gennaio 2026, con decisione attesa prima dell’estate. La durata arriverebbe fino a dieci anni e il valore è descritto come superiore a 50 milioni di euro, con un accento specifico sulla prevedibilità dei prezzi lungo tutto il periodo. È un dettaglio che conta, perché nei grandi contratti cloud l’incertezza su consumi e costi diventa spesso il vero elemento di lock-in. Chiedere prevedibilità significa chiedere un rapporto più simmetrico tra cliente e piattaforma. E se l’offerta europea saprà rispondere, avrà guadagnato non solo un contratto, ma un salto di reputazione e maturità.
La diagnosi istituzionale: il report del Parlamento europeo
La spinta non arriva solo dal mercato. In un report di giugno, il Parlamento europeo ha riconosciuto che l’Unione è “currently heavily dependent on foreign technologies,” in particolare americane, e che questa dipendenza ostacola la nascita di campioni tecnologici europei. Il documento è il rapporto su “European technological sovereignty and digital infrastructure” (procedura 2025/2007(INI), rapporto A10-0107/2025).
Questa analisi serve perché mette in fila causa ed effetto: senza infrastrutture e capacità industriali, la dipendenza tende a perpetuarsi. Il testo osserva che la dipendeza dell’Europa sembra destibara a continuare, anche per la scala degli investimenti statunitensi. La risposta è investire in ricerca e nuovi sistemi, e qui entrano i governi nazionali come attori che possono costruire capacità, soprattutto nei segmenti dove la scala e i tempi di ritorno scoraggiano iniziative isolate.
Rikap e Gerbaudo: la sovranità come uscita dall’oligopolio
In un’analisi a firma di Cecilia Rikap, professoressa associata di Economia e responsabile della ricerca presso l’Institute for Innovation and Public Purpose dell’University College London, e Paolo Gerbaudo, ricercatore associato dell’Alameda Institute e senior researcher in Scienza politica presso l’Università Complutense di Madrid, la sovranità digitale viene riportata alla sua sostanza economica: l’oligopolio. Gli autori partono da un’esperienza familiare e la spingono fino alla dimensione globale: “come ti senti quando provi a controllare i tuoi messaggi, ma non si aggiornano, e ti rendi conto che c’è un problema con l’app? Oppure quando apri un sito e trovi strani errori del server accompagnati da numeri come 500, 501 o 503?”. Poi collegano gli esempi al punto chiave del problema: “I servizi cloud costituiscono uno dei mercati più oligopolistici al mondo, con oltre il 60% del mercato globale nelle mani di sole tre aziende: Amazon Web Services (AWS), Microsoft Azure e Google Cloud.”
L’outage di AWS del 20 ottobre e quello di Azure del 29 ottobre 2025 diventano, in questa lettura, una dimostrazione di rischio sistemico. La parte che resta più impressa è l’effetto domino su servizi pubblici essenziali: nel Regno Unito, il gateway Gov.uk, e quel messaggio ripetuto ai cittadini: ‘Sorry, there is a problem with the service. Try again later’. La conclusione che ne traggono due esperti è che la concentrazione aumenta la probabilità di eventi da “single point of failure” e rende urgente trasformare la “digital sovereignty” da slogan a realtà operativa.
Il ragionamento non si ferma alla tecnica. Gli autori insistono sull’asimmetria tra convenienza immediata e costi di lungo periodo: il Regno Unito ha speso 1,7 miliardi di sterline in contratti AWS, giustificati dalla convenienza di prezzo, ma la convenienza ha un prezzo nascosto quando produce “long-term economic and technological subordination”. È qui che la sovranità diventa sviluppo: ridurre la subordinazione significa riaprire margini di politica industriale e trattenere valore.
Asset digitali come leva geopolitica: dal rischio politico al costo economico
Rikap e Gerbaudo ricordano che la vulnerabilità non è soltanto quella del guasto. È anche la possibilità di “weaponisation” degli asset digitali: l’interruzione di Photoshop in Venezuela per sanzioni Usa, Starlink come strumento di influenza durante la guerra in Ucraina, ne sono un esempio. Anche quando la singola azienda nega, il messaggio resta: la giurisdizione può produrre effetti operativi.
Per questo serve un cambio di passo: “Questa realtà è preoccupante e dovrebbe mettere in allerta i decisori politici europei sulla necessità di adottare misure concrete per dare attuazione all’impegno di perseguire la sovranità digitale”, dicono gli esperti.
Nella proposta di Rikap e Gerbaudo la sovranità è un progetto industriale: domanda pubblica che crea offerta, capacità che crea competenze, competenze che attraggono imprese.
AI “sovrana”: capacità di costruire modelli, filiere e fiducia
Ma cosa stanno facendo i Paesi europei per ridurre la dipendenza dai Big Tech americani, soprattutto sul fronte dell’intelligenza artificiale. Tre anni dopo l’arrivo di ChatGPT, diversi Paesi europei stanno provando a costruire sistemi propri. In questa cornice, l’“AI sovrana” significa una cosa molto concreta: la capacità di un Paese di sviluppare, ospitare, distribuire e governare sistemi di intelligenza artificiale fatti in casa, per i propri cittadini, senza dipendere da piattaforme straniere o da giurisdizioni cloud esterne.
In Germania l’ultimo annuncio riguarda SOOFI, un piano per costruire un modello open source “avanzato” che altre aziende possano adattare e usare come base per i propri prodotti. Il progetto mette insieme università e industria, con l’idea di sviluppare competenze lungo tutta la catena, dai dati al training.
La Svizzera, con l’iniziativa Apertus, ha lanciato un modello multilingue e insiste sull’apertura: ricercatori, professionisti e pubblico possono personalizzarlo; gli sviluppatori dichiarano disponibili architettura, dataset, codice e pesi con l’idea di costruire basi aperte di lungo periodo.
La Polonia ha presentato PLLuM, un modello pensato per le specificità della lingua polacca, in grado di gestire bene inflessioni e sintassi complesse. Il governo lo descrive come una piattaforma da cui far nascere applicazioni utili per scrivere testi, riassumere documenti, supportare studio e servizi.
La Spagna, con il Barcelona Supercomputing Centre, ha lanciato Alia, descritta come “la prima infrastruttura europea aperta e multilingue, responsabile e al servizio delle persone”. È un approccio che combina supercalcolo e risorse linguistiche: database aperti di dataset, modelli e strumenti in più lingue locali, per permettere a startup e imprese di costruire modelli domestici.
Nei Paesi Bassi il progetto GPT-NL nasce da organizzazioni non profit e si presenta come un modello per la lingua e la cultura olandesi: “affidabile, trasparente, reciproca e sovrana”. L’aspetto interessante è l’uso di dati di qualità tramite accordi con editori e agenzie, con un ritorno economico per chi fornisce contenuti: un tentativo di rendere sostenibile la filiera del dato e non solo il prodotto finale.
In Portogallo, infine, un consorzio universitario lavora dal 2024 su Amalia, capace di operare in portoghese con contesto locale; dopo test beta, l’obiettivo è arrivare a un rilascio pubblico a metà 2026. Il governo valuta già usi nei servizi pubblici e nella ricerca, e l’impostazione prevede che il codice del modello possa essere riutilizzato da altre aziende nazionali.
Nel complesso, questo mosaico racconta un cambio di passo: la sovranità, qui, non è solo un tema di controllo, ma un modo per costruire capacità industriale. Se dati, modelli e calcolo restano sempre altrove, l’Europa resta cliente. Se una parte crescente della catena viene sviluppata e governata in casa, cresce un ecosistema di competenze, imprese e applicazioni, e l’autonomia diventa anche sviluppo.
Perché Airbus è la soglia: sovranità come crescita misurabile
Se si guarda all’insieme delle grandi manovre appena descritte, Airbus rappresenta una soglia. La geopolitica spiega il “perché” del tema (Cloud Act, sanzioni, giurisdizioni). Lo sviluppo spiega il “come” e il “quanto” (filiere, competenze, resilienza, valore trattenuto). La gara di Airbus mette insieme entrambi: chiede controllo e chiede capacità industriale. È un passaggio che può trascinare un pezzo di ecosistema europeo verso una maturità nuova, perché obbliga l’offerta a misurarsi con requisiti enterprise reali.
La sovranità digitale, in questa traiettoria, non è un esercizio identitario. È un investimento in infrastrutture e competenze. È una strategia per ridurre rischi sistemici e, allo stesso tempo, un modo per riportare crescita e potere contrattuale dentro il perimetro europeo.












