L’ennesima montagna che partorisce un topolino. Queste sono le Linee Guida e il Codice di Condotta sugli Influencer appena varati da Agcom.
Oltre due anni di lavoro, 2 consultazioni pubbliche e, un tavolo tecnico durato 6 mesi, e sul mio fronte personale, mesi di lavoro, consultazione di best practices internazionali, di dati, statistiche, teorie, studi empirici e massimi esperti ed esperte del fenomeno, capaci di inquadrarlo sotto tutti i profili – marketing, sociologia, comunicazione pubblica – per arrivare a formulare decine e decine di proposte migliorative ai colleghi e relative richieste di rinvio, nella convinzione che vi fosse una reale intenzione di affinare il testo. E invece nella versione definitiva sopravvivono passaggi che a mio parere potrebbero essere discutibili persino in una tesina del primo anno di Università scritta senza intelligenza artificiale. Figuriamoci in quello che è un provvedimento di portata, se vogliamo, storica.
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Colmare il gap tra audiovisivo e digitale: target mancato
Il provvedimento doveva innanzitutto colmare il gap tra mondo audiovisivo e ecosistema digitale, ma fallisce l’obiettivo: mentre i fornitori di media audiovisivi sono sottoposti a una regolamentazione dettagliata, trasparente e verificabile, gli influencer potranno continuare a operare in una sorta di “zona franca” senza gli obblighi previsti dal Tusma, ovvero la legge di settore per l’audiovisivo.
Le ragioni sono queste: incongruenze tra Linee Guida e Codice di condotta, che consentiranno di eludere ogni responsabilità invocando ambiguità interpretative; assenza di riferimenti alle delibere Agcom in vigore per l’audiovisivo; definizioni farraginose e piene di smagliature, che sarà facile aggirare, o al contrario troppo stringenti, passibili di limitare l’ambito di applicazione della nuova disciplina.
Ad esempio, sarà ancora possibile per un influencer fare pubblicità occulta, proporre contenuti dannosi per i minori, istigare all’odio, spettacolarizzare la violenza o parlarne compiendo errori come la deresponsabilizzazione dell’autore e la vittimizzazione secondaria: tutte condotte che nel mondo audiovisivo sono espressamente vietate, e dunque perseguibili, da delibere invece assenti o citate non correttamente in questo provvedimento.
Incongruenze normative e definizioni inefficaci
I creatori di contenuti potranno rappresentare in modo sensazionalistico e fuorviante casi giudiziari senza subire le stesse conseguenze che subirebbe un’emittente televisiva, immediatamente coinvolta in un procedimento Agcom, perché, di nuovo, la relativa delibera in vigore per la l’audiovisivo non è menzionata nelle Linee Guida, nonostante la cronaca giudiziaria e più in genere il gossip processuale sia tema molto praticato da influencer seguitissimi.
Trovo inspiegabile la resistenza alla mia richiesta di citare espressamente le stesse delibere Agcom che vigono per l’audiovisivo e di uniformare i due testi, Linee Guida e Codice di condotta. Ancor peggio, di alcune delibere sono stati inseriti degli stralci, una scelta a mio parere incongruente e confusiva per i destinatari, cui si rischia di mandare il messaggio che il Regolatore abbia inteso non applicare l’intera delibera ma, appunto, solo alcuni pezzi. Ho fatto presente, inutilmente, che nel produrre una nuova disciplina non occorre replicare le norme regolatorie esistenti ma solo richiamarle nella parte dispositiva.
Il vuoto normativo sul fake engagement
E che dire del fenomeno che più rischia di alterare dinamiche di mercato e processi democratici, fabbricando consenso, interazioni, like e interi capitali reputazionali attorno a persone, brand o idee, anche le più estremiste e tossiche? Non una parola sul fake engagement, come avevo invece chiesto con forza in Consiglio, rappresentandone la pericolosità anche grazie ad alcuni casi balzati agli onori della cronaca proprio nei giorni in cui il provvedimento era in discussione. È come se nel sistema audiovisivo si permettesse ad un’emittente di dichiarare milioni di telespettatori senza alcuna verifica. Al contrario, qui Agcom ha affrontato da tempo il problema della misurazione affidabile e neutrale dell’audience, istituendo i JIC (Joint Industry Committee).
Mentre nel settore audiovisivo si è lavorato, appunto, per garantire trasparenza e affidabilità degli ascolti, con oneri significativi per tutti gli attori di mercato, nel mondo degli influencer si tollera che i contenuti siano drogati da metriche di engagement false e offerte in modo opaco, minando le risorse economiche in primis proprio di quei media tradizionali rispetto a cui il provvedimento intendeva colmare il gap. Ci troviamo infatti, senza accorgercene, in un sistema fuori controllo, che alimenta in modo surrettizio consenso e visibilità privi di alcun fondamento reale, con gravi danni per tutti i soggetti coinvolti nella catena del valore: gli utenti, portati a sovrastimare il successo e dunque l’autorevolezza di alcuni influencer (con effetti collaterali ancor più seri per le categorie più vulnerabili, tipo i minori); gli investitori pubblicitari, indotti dalla fallace percezione del seguito massivo di alcuni influencer a dirottare su di loro e sulle relative piattaforme le proprie inserzioni, peraltro pagandole un prezzo gonfiato; i media tradizionali, come gli editori della stampa e quelli radiotelevisivi, che per questa ragione si vedono sottrarre investimenti pubblicitari vitali; i creator onesti, che non utilizzano il fake engagement e che finiscono così per essere sottorappresentati sulle piattaforme.
Benefici solo per le piattaforme online
E’ una distorsione che non può più essere tollerata, che nei media tradizionali sarebbe stata contrastata con tutti i mezzi messi a disposizione dal Tusma, e che al momento va a beneficio di una sola categoria: le piattaforme online, che competono in modo indiretto con le agenzie che vendono fake engagement offrendo a loro volta agli utenti, a pagamento e in modo poco trasparente, forme di incremento della visibilità e promozione dei contenuti (funzionalità come “promuovi post” o “boost”) spesso senza spiegare con chiarezza cosa succede al contenuto, chi lo vedrà, con quale frequenza e con quale criterio…
Insomma, una proliferazione rizomatica di distorsioni, che fa del fake engagement una delle principali patologie dell’intero ecosistema digitale, e in particolare della platform economy e dell’influencer marketing. Trovo assurdo che non si sia neppure citato proprio nel provvedimento nato per disciplinare questo mondo!
Influencer “produttori di contenuti audiovisivi”?
Infine, se tale provvedimento appare fragile e “poroso” è anche per via delle definizioni utilizzate. Anacronistiche, dal sapore a tratti analogico, e non esaustive: offriranno il fianco a chi vorrà eluderle. Qualche esempio? Qualificare gli influencer come produttori di “contenuti audiovisivi che informano, intrattengono o istruiscono”, oltre a riportarci con un balzo al 1922, quando Sir John Reith Direttore generale della BBC scolpiva più o meno così le finalità del servizio pubblico radiofonico, lascia scoperta, ad esempio, l’amplissima galassia degli influ-attivisti e dei contenuti di comunicazione sociale. Difficile ricondurla a mera “informazione”, perché è caratterizzata da parzialità, finalità persuasive e meccanismi di monetizzazione analoghi a quelli degli influencer che promuovono beni e prodotti – a cominciare dalla conversione della reputazione in capitale economico – e dunque chi produce comunicazione sociale sarebbe tenuto ad osservare i medesimi obblighi di trasparenza e correttezza verso l’utenza.
Appare ingenuo, poi, circoscrivere l’applicazione delle Linee Guida ai contenuti che “possono avere un impatto significativo sul comportamento e sulle scelte del pubblico”: come ho fatto presente ai colleghi, nulla di tutto ciò si modifica se non cambiano prima opinioni e atteggiamenti, cui infatti mira l’attività degli influencer, ma che non sono citati nella definizione. E perché mai limitare i canali distributivi di tali contenuti a “piattaforme digitali, in particolare i social media” e l’attività degli influencer alla mera “creazione, produzione o selezione” (ridondante e al contempo insufficiente: vengono in mente, anche su due piedi, interventi curatoriali che sfuggono a questo trittico…)? Per garantire l’efficacia delle norme, più che puntualizzare e circoscrivere, converrebbe sempre optare per definizioni ampie, non vincolanti e lungimiranti, capaci di intercettare anche fattispecie di là da venire.
Che succederà in futuro?
Vedrete che finirà come il coinvestimento di Tim, come Piracy Shield, le linee guida sul Pluralismo, l’equo compenso, le infinite storture dell’applicazione della par condicio in periodo elettorale, e molto altri dossier cruciali, cui ho dedicato energie infinite e tutte le mie competenze, native o acquisite, prima di risolvermi a votare contro per mancanza dei più basici requisiti di tenuta tecnico-scientifica e/o giuridica.
Mi si risponde “concludiamo, già tanto tempo è passato!”, ignorando l’elementare verità che non si dovrebbe perpetrare un errore solo perché si è impiegato molto per commetterlo…
Poi, quando si verificheranno problemi che questi provvedimenti non prevedono né risolvono oppure arriverà una bocciatura da chi è più in alto di noi, come già accaduto in vari casi, mi toccherà di nuovo fare la parte del “io l’avevo detto”. Solo che io a fare questa parte non vinco proprio niente, e tutti perdono, a cominciare dall’efficienza amministrativa fino alle categorie professionali e le realtà aziendali coinvolte. E soprattutto loro: le e gli utenti.