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Noci (Polimi): “Meno giuristi e più ingegneri per fare l’Italia digitale”

Il direttore scientifico dell’Osservatorio E-gov del Politecnico di Milano: “Servono competenze in grado di accompagnare e gestire le trasformazione”. Nodo governance: “Una rete di attori diffusa e capillare che permetta di scaricare a terra i progetti innovativi. Non bastano le Regioni”

Pubblicato il 07 Feb 2018

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“In questi anni l’Italia ha fatto importanti passi avanti sul fronte digitale ma è ora è arrivato il momento di mettere a sistema le buone pratiche, stimolando le sinergie tra i diversi enti, centrali e locali”. Giuliano Noci, direttore scientifico dell’Osservatorio E-gov del Politecnico di Milano, spiega a CorCom come “coprire” quell’”ultimo miglio” che farebbe del nostro Paese un Paese finalmente all digital.

Come giudica quanto fatto finora da Agid e anche dal Team di Piacentini?

Non si puà negare che siano stati messi in campo iniziative cruciali. Penso al Piano Triennale che è un importante strumento di coordinamento per favorire la sinergia tra i diversi livelli della PA e tra i territori. Tra i progetti che si possono considerare a buon titolo best practice ci sono Spid, PagoPA e anche il processo civile telematico. Progetti che collocano il nostro Paese tra i benchmark europei.

E allora perché si ha la sensazione che manchi sempre qualcosa per fare l’Italia “tutta” digitale? Come se non si riuscisse a coprire l’ultimo miglio…

Perché manca una governance dell’innovazione che metta a sistema gli sforzi fatti. Agid ha individuato nelle Regioni dei poli di aggregazione ma non basta: anche sfruttando la prossimità territoriale delle Regioni si rischia di tagliare fuori gli enti più piccoli, che sono quelli che trovano maggiori ostacoli nei processi di innovazione, sia dal punto di vista organizzativo sia finanziario. Un grande programma di digitalizzazione deve avere l’ambizione di non lasciare indietro nessuno.

Quando parla di una governance dell’innovazione pensa a un ministero ad hoc?

Guardi si possono investire di questo compito tutti i ministeri che si vuole, ma l’innovazione non si realizza perché c’è un ministero che lavora dall’alto. L’innovazione si fa quando ci sono – e funzionano – meccanismi che scaricano a terra questa innovazione.

 In pratica cosa serve?

Una rete diffusa e capillare di attori che consentano anche al comune di 800 abitanti di realizzare i progetti. Una rete a più livelli che coinvolga certo le Regioni, ma che poi abbia nei centri di servizi territoriali multi-ente una sorta di braccio operativo finale. In caso contrario, in un Paese come l’Italia con 8mila Comuni e una possente burocrazia centrale, si rischia di non coprirlo quell’ultimo miglio di cui parlava. Poi c’è un secondo tema inerente alla governance ovvero quello della messa a sistema dei progetti che funzionano: l’Agenzia per la Coesione ha messo in campo un’iniziativa specifica – “PA community” – che mira a creare comunità di attori “verticali” che estende le best pratice e le mantiene nel tempo.

È possibile fare sistema in un Paese dove i Comuni non si parlano? Macano standard e scarsa è l’interoperabilità.

Ovviamente no. Bisogna lavorare agli standard dei documenti: non è possibile che “campanile che vai, modulo che trovi”. Ma la messa a sistema delle best practice porterebbe naturalmente con sé un processo di standardizzazione.

Ha parlato di una rete multilivello per sostenere gli enti nella trasformazione e di chi ha il compito di veicolare i progetti che funzionano. Lei che idea si è fatto sull’annosa questione della skill che mancano nella PA?

Meccanismi per scaricare a terra l’innovazione, diffonderla e mettere a sistema richiedono competenze specifiche che vanno oltre quelle giuridiche che, a mio avviso fanno a pugni con la digitalizzazione della PA. E poi non basta formare gli attuali dipendenti servono innesti nuovi.

Di che tipo?

Gliela dico semplice: meno giuristi, più ingegneri che possono accompagnare e governare la trasformazione digitale, sul fronte tecnologico ma anche organizzativo.

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