Con il Digital Networks Act (Dna), l’Europa prova a riscrivere le regole delle telecomunicazioni, puntando su semplificazione normativa, nuove metriche di misurazione e maggiore trasparenza. Ma il vero banco di prova, secondo Davide Di Labio, Associate Partner di Kpmg, sarà trasformare questi principi in strumenti concreti, capaci di stimolare innovazione e competizione reale tra operatori grandi e piccoli. Solo così l’utente finale potrà davvero beneficiare di reti più veloci, servizi digitali più avanzati e di un mercato finalmente più efficiente e aperto.
Di Labio, il Digital Network Act (DNA) è un pacchetto di norme pensato per rilanciare un settore che, a dire il vero, appare in difficoltà. A tuo avviso, quali sono gli impatti principali di questa iniziativa sul settore delle Tlc e come può realmente influire sulla competitività delle aziende del settore?
Il Dna nasce con l’obiettivo di mettere ordine nel mercato telco europeo, che sappiamo essere complesso e frammentato. Credo che il successo dipenda dalla capacità di coniugare diversi fattori. Primo tra tutti, la semplificazione normativa, che è uno degli aspetti più evidenti. Secondo, la sostenibilità economica degli investimenti, che in alcune geografie europee, come l’Italia, è ancora un problema. Inoltre, un altro aspetto cruciale è la tutela della competizione, che resta un tema delicato. Inoltre, gli strumenti che il Dna offre, come l’armonizzazione delle regole delle aste e i meccanismi di cofinanziamento, sono pensati per aiutare la diffusione delle reti ad alta velocità. In particolare, la pianificazione per il 5G è fondamentale, anche se è importante non incorrere in nuovi colli di bottiglia. Se non si gestiscono correttamente i fondi e i criteri tecnici, rischiamo di complicare ulteriormente un sistema che già è abbastanza complesso. Oltre alla semplificazione e ai risparmi operativi già menzionati, il DNA introduce una “telemetria” di concorrenza: i nuovi report trimestrali e gli indicatori unificati mostreranno in tempo reale dove il mercato è fragile, permettendo interventi mirati anziché misure generalizzate. Questo favorirà chi saprà innovare in nicchie verticali (ad esempio servizi per l’industria o per la sanità digitale), e spingerà le telco a differenziarsi su servizi a valore aggiunto, non solo sul prezzo del bit.
Quindi, secondo te, la chiave è un controllo sulle logiche di destinazione dei fondi e sui criteri tecnici?
Se non c’è un controllo adeguato nella definizione dei criteri tecnici e nella governance, rischiamo di creare nuovi colli di bottiglia, pur con l’intento di semplificare. L’implementazione sarà quindi il vero banco di prova. Dobbiamo intervenire tempestivamente sui gap che si creeranno, specialmente nella battaglia tra i grandi operatori e i nuovi entranti, che potrebbero trovare difficoltà se non si gestiscono bene queste leve. Affinché i fondi europei e nazionali producano risultati concreti, è essenziale legare le erogazioni ai risultati misurabili: copertura effettiva, performance minime di latenza e throughput, tassi di adozione certificati dalle community locali. In questo modo, ogni tranche di finanziamento diventa vincolata a un “report card” dei Kpi sul campo, trasformando gli stanziamenti in veri contratti di servizio pubblico.
Puoi farci qualche esempio per comprendere meglio l’impatto di questa riforma?
Un aspetto interessante riguarda la governance unica. Oggi abbiamo regolamenti frammentati su diversi enti regolatori e modelli di governance. Con il Digital Network Act, l’idea è di semplificare tutto in un unico grande regolamento, riducendo i costi e abbattendo le duplicazioni. Questo potrà sicuramente migliorare la capacità di rispondere all’evoluzione tecnologica, un passo importante considerando che spesso la normativa arriva in ritardo. Inoltre, l’introduzione di un portale unico – così come previsto – con report trimestrali sulle performance degli operatori per ogni geografia sarà un grande passo avanti. Perché sarà più facile confrontare le prestazioni e le coperture degli operatori a livello europeo, migliorando la trasparenza. L’idea di un portale unico è ottima, ma diventa davvero efficace solo se alimentato in tempo reale da fonti diverse: test di crowd‑sourcing degli utenti, dati di rete forniti dagli operatori e statistiche sugli incidenti. Un cruscotto web aperto, accessibile a cittadini e imprese, farà emergere le best practice e indicherà dove conviene convogliare i prossimi investimenti, creando un circolo virtuoso di trasparenza e responsabilità.
Ma non ci sono rischi che questo nuovo modello di governance possa creare ulteriori problemi?
Certamente. Da un lato, la maggiore trasparenza è positiva, ma dall’altro c’è il rischio che, se non ben implementato, il sistema si sovraccarichi di modifiche normative. C’è poi l’annosa questione delle pressioni politiche, con i governi nazionali che potrebbero cercare di influenzare i comitati centrali. Situazione che potrebbe portare a una gestione più politicizzata del settore. Per scongiurare il rischio di continui aggiustamenti normativi, potrebbe essere utile adottare “finestre di stabilità” pari a 18–24 mesi per le linee guida principali, durante le quali ogni cambiamento sostanziale va preceduto da una consultazione allargata e da un periodo di pre‑notifica. In questo modo si riduce lo spazio per spinte politiche dell’ultimo minuto e si garantisce una finestra temporale di certezza operativa per gli operatori.
Parlando di temi più specifici, che ne pensi dei voucher digitali? Potrebbero essere efficaci per colmare il digital divide?
Personalmente, non sono mai stato un grande sostenitore dei voucher digitali. Sebbene l’idea di colmare il digital divide sia positiva, spesso questi strumenti si rivelano poco efficaci, con benefici che vengono distribuiti a pioggia e spesso non utilizzati. Se estesi a livello europeo, c’è il rischio che diventino un ulteriore incentivo per alcune aree che già beneficiano di sussidi, senza risolvere i problemi strutturali. Il punto è capire quali metriche verranno utilizzate per misurare l’efficacia di questi voucher. I bonus per l’acquisto di banda larga possono davvero colmare il digital divide solo se affiancati a percorsi formativi locali: basti pensare a piccoli “digital hub” dove Pmi, scuole e professionisti imparano a sfruttare le nuove connessioni. Senza questa componente di capacity building, i voucher rischiano di restare spese a fondo perduto, senza impatto sul miglioramento delle competenze o sulla creazione di nuovi servizi.
E sul tema delle aste, come vedi la gestione delle licenze, soprattutto per il 5G e il futuro 6G?
Il Digital Network Act porta con sé importanti cambiamenti nelle aste per le licenze, estendendo la loro durata fino a 15 anni. Questo darà certamente maggiore certezza agli operatori, ma presenta anche il rischio che i grandi operatori monopolizzino lo spettro. Su questo fronte però c’è una novità interessante: la possibilità di accesso a questi spazi tramite un modello di crowdfunding, che consente anche ai piccoli operatori di partecipare. Tuttavia, la capacità di fare alleanze tra i piccoli operatori sarà determinante per evitare che il mercato si polarizzi a favore dei grandi. Se i piccoli non saranno in grado di allearsi, rischiamo di assistere a una concentrazione di investimenti nelle mani di pochi. Estendere la durata delle licenze è strategico, ma serve anche un meccanismo che premi chi si impegna sulle zone meno redditizie: una reverse auction per porzioni di spettro dedicate alle aree rurali potrebbe fare al caso nostro, assegnando blocchi a chi offre la migliore copertura a costi contenuti. In questo modo si evita che lo spettro diventi merce di speculazione finanziaria e si assicura un rollout equilibrato.
Il Dna ha come obiettivo anche ripristinare una sorta di level play field tra Ott e telco. Su questo fronte qual è la tua posizione sulla “neutralità della rete” e il dibattito sulla fair share ovvero il contributo che le big tech dovrebbero pagare agli operatori per l’utilizzo delle reti?
Il Dna propone che le grandi piattaforme Ott contribuiscano ai costi di rete quando superano soglie di “traffico premium”, trasformando idealmente questo onere in una fonte di finanziamento mirata per fibra e 5G. Ad esempio, superati i 1 Tbps di traffico HD mensile, Netflix verserebbe un contributo destinato a potenziare dorsali in aree rurali o a finanziare tariffe calmierate nei piccoli centri. Per essere davvero risolutivo, il Dna deve innanzitutto definire con precisione cosa rientri nel traffico premium – distinguendo chiaramente fra streaming video, gaming in cloud e applicazioni critiche come la telemedicina – e adottare un sistema di misurazione trasparente e aperto. Serve poi una clearing house efficiente, con pagamenti trimestrali e procedure di disputa rapide, per evitare ritardi operativi. Infine, è fondamentale proteggere i piccoli operatori e gli Mvno, esentandoli dai contributi o destinando loro una parte del fondo Ott, in modo da premiare la capillarità delle reti piuttosto che la sola capacità finanziaria. Rimane però un elemento di complessità: da un lato stiamo chiedendo alle telco di farsi riscattare una parte dei loro investimenti dalle piattaforme che generano il traffico, dall’altro molte di queste stesse telco hanno stretto solide alleanze con gli hyperscaler per offrire servizi cloud ed edge. Basta pensare a come molte telco collaborino con i Cloud provider per far girare funzioni di rete e applicazioni enterprise. Queste partnership mostrano che, in fondo, operare insieme è l’unica via per sostenere l’innovazione, ma rende paradossale l’idea di far pagare gli Ott “per l’uso” di una rete che gestiscono spesso già in tandem con gli stessi operatori. Per questa ragione, il Dna potrà davvero funzionare solo se i contributi di fair‑share saranno calibrati con equilibrio, abbastanza alti da finanziare le dorsali nelle aree più fragili, ma non così invasivi da scoraggiare quel modello di libera competizione e collaborazione che ha permesso alle telco di diventare, al tempo stesso, infrastruttori e broker di servizi digitali.
Quali sono invece sono i principali vantaggi per il consumatore finale derivanti da questa riforma?
Il principale vantaggio per il consumatore finale è sicuramente una rete più veloce e più stabile, grazie alla migliore gestione del traffico e all’ottimizzazione delle reti ad alta velocità. L’introduzione di tecnologie come il content delivery network (Cdn) e l’edge computing permetterà una gestione più efficiente del traffico, migliorando le prestazioni e riducendo la latenza. Questo porterà sicuramente a un’esperienza utente migliore, soprattutto con l’aumento del traffico legato al 5G e al 6G. A regime, l’utente vedrà non solo velocità superiori, ma soprattutto pacchetti semplificati che combinano connettività di base e servizi a bassa latenza (gaming, VR, smart‑factory) in un unico abbonamento. Il risultato sarà una competizione spostata sui contenuti e sulle funzionalità, non più sul prezzo del singolo GB, con miglioramenti concreti nell’esperienza quotidiana.