Le telecomunicazioni sono tra i settori più esposti alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, ma anche tra i più pronti a trarne vantaggio. L’automazione dei processi, l’uso di algoritmi per la gestione delle reti, la manutenzione predittiva e l’analisi dei dati rappresentano già oggi elementi cruciali per garantire efficienza e competitività. Tuttavia, la vera sfida non risiede nella tecnologia in sé, bensì nella capacità del capitale umano di evolvere insieme all’AI.
Secondo il rapporto annuale della Fondazione Randstad AI & Humanities, presentato alla Camera dei Deputati, oltre 10,5 milioni di lavoratori italiani sono oggi “altamente esposti” al rischio di automazione, in particolare tra le professioni meno qualificate come artigiani, operai e impiegati d’ufficio. Ma anche nelle telecomunicazioni, l’impatto sarà determinante: se da un lato alcune funzioni di rete o di assistenza potranno essere sostituite da sistemi intelligenti, dall’altro si aprono spazi per nuove figure professionali come data scientist, esperti di cybersecurity e ingegneri di machine learning.
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Il paradosso della sostituzione: quando l’automazione crea lavoro
La transizione in atto non è soltanto quantitativa, ma qualitativa. Come afferma Valentina Sangiorgi, presidente della Fondazione, “il futuro dell’intelligenza artificiale in Italia non è scritto, dipende dalle scelte di oggi”. L’AI, infatti, può compensare il calo demografico previsto – circa 1,7 milioni di lavoratori in meno entro il 2030 – e generare nuova occupazione, purché si investa in politiche formative e in governance etica.
Nelle telecomunicazioni, questo paradosso è evidente: l’automazione dei processi di customer care, ad esempio, libera tempo e risorse per attività di maggiore valore, come l’innovazione dei servizi e la gestione dell’esperienza utente. Non è la tecnologia a distruggere lavoro, ma l’assenza di competenze a renderlo obsoleto.
Hard skill digitali e soft skill umane: la doppia rivoluzione
Il rapporto Randstad sottolinea come la vera rivoluzione sia “nelle competenze richieste a tutti i profili”: da un lato, nuove hard skill, come alfabetizzazione digitale, analisi dei dati e logica algoritmica; dall’altro, una riscoperta delle soft skill più umane, come creatività, empatia, pensiero critico e capacità di risolvere problemi complessi.
Nel settore delle tlc, dove la gestione dei dati è già un pilastro, questa trasformazione assume un valore simbolico. I professionisti non potranno più limitarsi a conoscere le infrastrutture tecnologiche, ma dovranno collaborare con le macchine, comprenderne il linguaggio e saper interpretare i risultati che producono. La comunicazione, intesa come capacità di mediare tra l’uomo e l’algoritmo, diventa competenza chiave.
L’impatto territoriale e generazionale dell’automazione
La ricerca evidenzia come l’impatto dell’intelligenza artificiale non sia uniforme sul territorio italiano. Le regioni a vocazione manifatturiera o con settori a bassa intensità tecnologica risultano più vulnerabili. Al contrario, aree ad alto tasso di innovazione come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna offrono maggiori opportunità di riqualificazione e sviluppo di nuovi ruoli professionali.
Anche il fattore anagrafico gioca un ruolo cruciale: i giovani tra i 15 e i 24 anni risultano meno esposti rispetto agli over 50, segno che la familiarità con il digitale è un vantaggio competitivo. Tuttavia, la diffusione dell’AI in tutti gli ambiti produttivi rende necessario un piano di formazione permanente che accompagni le diverse fasce di età.
L’educazione come terreno di sfida
L’intelligenza artificiale sta già modificando i sistemi educativi. Nelle università e nelle aziende del settore tlc, l’AI è sempre più utilizzata per personalizzare i percorsi di apprendimento e migliorare l’efficienza formativa. Tuttavia, la Fondazione Randstad mette in guardia da un rischio concreto: la “incoscienza artificiale”, ovvero la tendenza a fidarsi eccessivamente delle macchine senza una reale consapevolezza critica.
Per evitare questa deriva, serve un’educazione che utilizzi l’AI come strumento di dialogo socratico, capace di stimolare il ragionamento e non solo di fornire risposte. Il modello “learn by doing” deve diventare la norma, superando le lezioni frontali per dare spazio all’esperienza, alla sperimentazione e alla collaborazione uomo-macchina.
Formazione continua e governance etica
L’AI ridefinisce anche il concetto di “skill”. Non bastano più percorsi universitari tradizionali o aggiornamenti occasionali: servono investimenti pubblici e privati in programmi di upskilling e reskilling, accessibili a tutti. Nelle tlc, ciò significa preparare figure in grado di gestire reti intelligenti, infrastrutture cloud e sistemi predittivi, ma anche manager capaci di interpretare le implicazioni etiche e sociali dell’automazione.
Il rapporto invita a creare un quadro di governance trasparente e responsabile, in grado di garantire che gli algoritmi rispettino i valori umanistici e non solo le logiche di mercato. È la stessa direzione indicata dal progetto di ricerca coordinato dal professor David Leslie della Queen Mary University di Londra, che propone una governance dell’AI ispirata al framework UNESCO, già adottata come riferimento internazionale.
Smart working e rischio di alienazione
Un dato sorprendente emerge dal rapporto: i lavoratori che praticano smart working sono più esposti all’AI rispetto a chi lavora sempre in presenza. L’82,5% di chi svolge la propria attività almeno per metà da casa è potenzialmente soggetto all’automazione. Nelle tlc, dove il lavoro da remoto è ampiamente diffuso, questa tendenza impone una riflessione profonda sul significato stesso del “lavoro agile”.
Gli uffici del futuro dovranno trasformarsi in hub di connessione e socializzazione, luoghi dove alimentare la creatività e il senso di appartenenza. Le aziende dovranno investire in politiche che promuovano la collaborazione e lo sviluppo di quelle competenze che l’AI non potrà mai replicare: empatia, leadership, intuizione.
Dalla tecnologia alla cultura del futuro
L’intelligenza artificiale, conclude la Fondazione Randstad, non è una minaccia esistenziale ma un’estensione delle capacità umane. La chiave sarà saperla integrare nei processi produttivi senza perdere la dimensione etica e sociale del lavoro. Nel mondo delle telecomunicazioni, ciò significa costruire una cultura aziendale che riconosca nell’AI non un fine, ma un mezzo: un alleato per amplificare la creatività e l’intelligenza collettiva.
Solo in questo modo, la trasformazione digitale potrà diventare una vera rivoluzione umanistica, capace di mettere al centro le persone e di far emergere nuove forme di valore condiviso.