“Non c’è nessun progetto di ingresso nel Cda di Poste Italiane da parte di Tim.” Con queste parole, pronunciate a margine della cerimonia per i dieci anni dalla quotazione di Poste Italiane a Palazzo Mezzanotte, Matteo Del Fante ha chiuso la porta alle indiscrezioni che nei giorni scorsi avevano ipotizzato un coinvolgimento diretto del gruppo postale nella governance di Tim.
Dopo la cooptazione di Alessandra Perrazzelli, ex vicedirettrice generale della Banca d’Italia, nel Consiglio d’amministrazione di Tim al posto della dimissionaria Domitilla Benigni, non si erano spente le voci di un probabile ingresso di Poste. Il nome di Laura Furlan, amministratrice delegata di Poste Vita, era circolato insistentemente come possibile nuova componente del board. Una prospettiva per ora, però, accantonata. Del Fante ha voluto chiarire che Poste Italiane, pur essendo azionista rilevante di Tim (24,8% del capitale ordinario), non ha al momento intenzione di esercitare un ruolo diretto nella governance dell’operatore.
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La posizione del Mef e gli equilibri azionari
Le dichiarazioni del manager si inseriscono in un contesto più ampio che riguarda gli assetti proprietari e le strategie del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), azionista di riferimento sia di Poste Italiane.
Il Mef – ha confermato Del Fante – non ha fornito ulteriori indicazioni sulla possibile vendita di una nuova tranche di azioni di Poste Italiane, dopo quelle già collocate nei mesi scorsi. “Se ne era parlato – ha detto il manager – ma l’azionista non ci ha dato indicazioni recenti ulteriori”.
Il governo sembra dunque mantenere per ora una linea di prudenza sulla gestione delle sue partecipazioni strategiche.
Sovranità tecnologica e convergenza industriale
Le traiettorie di Tim e Poste Italiane sono fortemente intrecciate. E non solo per motivi legati alla partecipazione azionaria. Da un lato, l’operatore Tlc punta a consolidare la propria leadership nelle infrastrutture e nei servizi cloud, con un occhio attento alla sovranità tecnologica e all’integrazione delle filiere digitali italiane.
Dall’altro, Poste evolve da tradizionale gruppo logistico-finanziario a motore dell’innovazione digitale pubblica, gestendo servizi come Spid, pagoPA e piattaforme di identità.
Entrambe le aziende condividono, in ultima analisi, una missione che riguarda l’interessa del sistema Paese: garantire che la trasformazione digitale del Paese avvenga sotto il controllo di operatori italiani, con infrastrutture sicure e sostenibili.
La loro collaborazione – a prescindere dalla presenza o meno di Poste nel cda di Tim – – è strategica per il futuro del digitale e delle telecomunicazioni italiane.
La questione Spid
Poste Italiane è un asset cruciale per la digitalizzazione del Paese. A dieci anni dalla quotazione in Borsa, l’azienda guidata da Del Fante può contare su una presenza capillare, una solidità finanziaria riconosciuta dal mercato e una crescente vocazione tecnologica.
Durante l’evento di Milano, Del Fante ha anche affrontato un tema che tocca milioni di cittadini: il futuro dello Spid.
“Al momento Spid resta gratuito per i cittadini – ha detto – anche se il mercato si sta muovendo in direzione diversa. Stiamo facendo le nostre valutazioni, ma per ora il servizio rimane gratuito con Poste.” Le parole smentiscono i rumors delle scorse settimane secondo cui l’azienda stava valutando l’introduzione di una management fee di 5 euro l’anno sulle identità digitali: su un bacino di circa 20 milioni di Spid attivi, l’impatto potenziale sarebbe stato di circa 100 milioni di Enit addizionali.
Una presa di posizione importante, perché Poste gestisce oltre il 70% delle identità digitali attive in Italia attraverso PosteID.
Mentre altri provider – come Aruba, InfoCert e Register.it – hanno introdotto un canone annuale compreso tra 4,90 e 9,90 euro, Poste continua a sostenere un modello di accesso gratuito, almeno per il momento.
Il modello Spid a pagamento e la sostenibilità economica
Il tema della fine della gratuità dello Spid rappresenta una delle questioni più delicate nella strategia di digitalizzazione pubblica.
Dopo anni di gestione senza costi per l’utente finale, i principali provider hanno deciso di introdurre tariffe annuali, motivando la scelta con l’assenza di un finanziamento stabile da parte dello Stato e con costi di gestione crescenti legati a sicurezza e manutenzione.
Aruba e InfoCert hanno fatto da apripista, seguiti da Register.it. Poste, ad oggi, si mantiene sulla linea della grauità.
Si tratta di una scelta strategica non solo economica, ma anche politica e sociale: il modello di business dello Spid influisce direttamente sull’inclusione digitale, sulla fiducia dei cittadini nei servizi pubblici online e sul rapporto tra pubblico e privato nella gestione delle infrastrutture digitali nazionali.
La convergenza con la Cie e l’IT-Wallet
La questione dello Spid si intreccia con un altro capitolo decisivo: la Carta d’Identità Elettronica (Cie) e l’IT-Wallet.
Il governo, con il sottosegretario Alessio Butti, ha indicato una chiara direzione: convergere verso un sistema unico nazionale di identità digitale, basato proprio sulla Cie, per raggiungere i target del Pnrr, che prevedono il 70% degli italiani dotati di un’identità digitale entro giugno 2026.
Le cifre parlano chiaro: oltre 40,5 milioni di credenziali già attivate tra Spid e Cie. Tuttavia, la frammentazione attuale dei sistemi rischia di rallentare la transizione verso un ecosistema unificato. In questo contesto, Poste Italiane rimane l’attore più influente, non solo per i numeri ma per la fiducia che rappresenta nel rapporto tra cittadini e Stato digitale.



































































