IL CASO

Apple, ecco tutti i “trucchi” fiscali

Per gli esperti legali Usa, la Mela ricorre ad escamotage legali per eludere le tasse sfruttando le falle nei sistemi fiscali americano e irlandese. Ma il Senato Usa è intenzionato a fare ordine

Pubblicato il 23 Mag 2013

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Apple non usa trucchi fiscali? Ieri il Ceo Tim Cook lo ha dichiarato rispondendo alle accuse di evasione fiscale del Senate Permanent Subcommittee on Investigations ma due dei massimi professori di legge americani la pensano diversamente.

Richard Harvey Jr., docente alla Villanova University School of Law, nota oggi sulle pagine di Fierce Mobile che Apple ha registrato 22 miliardi di dollari dei suoi utili pre-tasse nel 2011 in Irlanda, pari al 64% del suo profitto globale. Tuttavia Apple in Irlanda ha solo il 4% dei suoi dipendenti e l’1% dei clienti. Apple è riuscita tra l’altro a negoziare uno speciale accordo fiscale col governo irlandese e questo le ha permesso di pagare appena 13 milioni di dollari di tasse sui 22 miliardi di utili registrati in Irlanda.

Stephen Shay, professore della Harvard Law School, concorda: le aziende di Apple in Irlanda impiegano solo 2.452 della forza lavoro totale della società (59.000 dipendenti) eppure dichiarano 22 miliardi di utili pre-tasse: praticamente ogni dipendente irlandese avrebbe contribuito a generare per Apple 9 milioni di dollari di guadagni.

Per i due professori americani, Apple non rispetta, come sostiene Cook, lo spirito delle regole del fisco americano, ma piuttosto lo “spirito dell’evasione fiscale”. Non che Apple abbia fatto niente di illegale, aggiungono i due esperti: ha sfruttato le falle nei sistemi fiscali americano e irlandese e probabilmente il Senato degli Stati Uniti è ora intenzionato a porre riparo.

Ieri Apple si è affrettata a chiarire la sua posizione ma anche l’Irlanda rispedisce al mittente le accuse, peraltro non nuove, di aver fatto da paradiso fiscale al colosso americano. “Sono problemi che derivano dai sistemi di tassazione di altre giurisdizioni”, ha dichiarato il vicepremier Eamon Gilmore. “L’Irlanda ha tasse basse, il che è diverso dal non avere un regime fiscale”, aveva già detto tre mesi fa Danny McCoy, direttore generale dell’Ibec, la maggiore organizzazione imprenditoriale del paese, intervistato da Il Sole 24 Ore.

Fin dagli Anni ’60 l’Irlanda ha cercato di porsi come paese business-friendly, attraendo le imprese straniere con esenzioni fiscali. Nell’ultimo decennio queste agevolazioni si sono tradotte in una corporate tax del 12,5%, tra le più basse d’Europa, nonostante il pressing dei partner dell’Ue ad uniformarsi alla media europea. Con questa ed altre agevolazioni (esenzioni sui dividendi esteri, sostanzioso credito di imposta sulle spese in ricerca e sviluppo…) il paese ha continuato ad attrarre investimenti e oggi sono circa un migliaio le multinazionali, di cui molte americane (come Google, Microsoft, Twitter, Intel, PayPal), che si sono stabilite in Irlanda, dove danno lavoro a 150mila persone. Le aziende americane hanno investito l’anno scorso in Irlanda 30 miliardi, più che in Cina e nel resto dell’Asia emergente.

Per le aziende americane c’è il vantaggio aggiuntivo che, con sofisticati accorgimenti che combinano il già favorevole regime irlandese con scappatoie della legislazione statunitense, si possono sottrarre al fisco porzioni molto consistenti dei profitti. Uno di questi escamotage è stato citato nel caso di Apple: per la legge irlandese solo le società gestite e controllate in Irlanda sono considerate residenti ai fini fiscali e la normativa Usa tassa solo le società che hanno sede legale negli Stati Uniti. Si possono così creare vere società fantasma per il fisco, perché sono costituite in Irlanda ma gestite e controllate negli Usa.

Ma i trucchi possibili sono tanti e uno molto noto è il cosiddetto “double Irish”, imperniato su due sussidiarie costituite in Irlanda e sulla cessione delle royalties, ovvero i diritti di sfruttamento di proprietà intellettuale di cui società come Apple, Google o Microsoft sono detentrici. Il “double Irish” consiste nel far interagire fra loro le due società irlandesi, una delle quali è però residente fiscalmente offshore. In questo modo vengono trasferiti, ad esempio, nelle Bermuda o nelle Cayman i profitti sullo sfruttamento dei diritti della proprietà intellettuale. Questa gestione offshore riduce le tasse praticamente a zero.

Con questi accorgimenti, secondo Reuters, Apple ha pagato nel 2011 solo l’1,9% di tasse su 37 miliardi di dollari di utili oltreoceano. Google avrebbe pagato il 2,6% su 6 miliardi di utili esteri, Microsoft il 9,4% su 21 miliardi. Sono pratiche formalmente legali, ma che in tempi di austerity e pressione sui bilanci i governi cominciano a voler seriamente combattere.

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