IL CASO

Banda ultralarga di Stato, ecco perché il Cobul ha “blindato” la rete

Il modello a “intervento diretto” non esclude le eventuali partnership contrattuali con i privati, ma evita allo Stato di sborsare a fondo perduto il 70% delle risorse. E si abbattono anche i tempi per dare il via ai lavori evitando la scure dell’Europa su aiuti di stato e posizioni dominanti

Pubblicato il 07 Gen 2016

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Velocizzare i tempi di realizzazione della nuova rete ultrabroadband azzerando in un sol colpo le lungaggini, inevitabili, del processo di messa a punto dei bandi nazionali nel caso di partnership pubblico-privato e la “scure” europea sul fronte degli aiuti di stato e delle posizioni dominanti. Il tutto garantendo la terzietà del mercato. Queste le ragioni, secondo quanto risulta a CorCom, che hanno spinto il Comitato Banda Ultralarga (Cobul) a “stringere” sul modello di intervento diretto da parte dello Stato nella realizzazione della rete Ngn. Un modello che garantisce la proprietà dell’infrastruttura, pur non escludendo le partnership pubblico-private da un punto di vista contrattuale (ma non più societario), e che lascia aperta anche la porta ad un’eventuale quotazione della rete su modello Terna.

I risultati della seconda consultazione pubblica di Infratel – che ha aggiornato la lista dei cluster per identificare al meglio quelli in cui possono essere utilizzate le risorse pubbliche (aree C e D) senza incorrere nelle maglie della normativa sugli aiuti di stato – hanno portato alla conclusione che le risorse in campo (di cui i 2,2 miliardi già deliberati dal Cipe) sono sufficienti per garantire la realizzazione della rete ultrabroadband in quelle aree del Paese dove gli operatori non sono interessati a investire poiché non remunerative stando agli obiettivi 2020 fissati dall’Europa e quelli del Piano Banda Ultralarga del governo italiano.

Il Cobul ha quindi deciso di “bocciare” il modello a intervento a incentivo, quello di cui si è discusso nei mesi scorsi e che prevede un contributo statale pari al 70% del valore della rete (le attuali norme non consentono di salire oltre questa soglia) e il restante 30% a carico degli operatori interessati a investire. Per realizzare la rete nelle aree C e D – e in particolare in quelle D – sono necessari interventi molto estensivi: nelle aree in questione infatti le infrastrutture sono totalmente inesistenti e quindi bisogna posare la fibra a partire dalle centrali e raggiungere punti vicini alle unità immobiliari. Operazione che difficilmente garantisce redditività agli operatori. Non solo: un intervento statale pari al 70% di fatto rappresenterebbe un “regalo” ai privati, visto che la rete – con il modello di intervento a incentivo – sarebbe di proprietà dell’operatore/i che la realizza con “appena” il 30% delle risorse complessive da investire. Perché lasciare ai privati la proprietà della rete se la maggior parte dei soldi ce li mette lo Stato? Questa l’osservazione che ha portato il Cobul a ritenere non “idoneo” il modello di intervento a incentivo.

Anche sul fronte della partnership pubblico-privata il Comitato si è espresso con “riserva”: questo modello prevede che l’operatore selezionato per la realizzazione dell’infrastruttura sia un wholesaler “puro”. Nel caso infatti si identificasse come retailer sarebbe necessaria un’analisi di mercato atta a valutare l’impatto sul mercato e sulla concorrenza. Un’analisi che richiederebbe tempi lunghi. Inoltre ci sarebbero alcune incognite sulla strada. La prima: i bandi di gara potrebbero andare deserti nel caso gli operatori non ritenessero vantaggiose le condizioni ai fini della redditività. La seconda: potrebbe partecipare solo Telecom Italia e qui si rischierebbe il contenzioso a livello europeo. La terza: potrebbe partecipare solo Enel e in questo caso non ci sono ad oggi gli elementi per capire se l’azienda sia o no interessata a una partnership pubblico-privato. E c’è anche una quarta incognita, che ha pesato non da poco sulla valutazione del Cobul: quella dei tempi per la messa ma punto delle gare. Stando alle stime ci vorrebbe almeno un anno per venirne a capo considerato i passaggi con la Commissione Ue, ma anche la messa a punto del business plan da mettere in valutazione, i capitolati di gara e via dicendo.

Insomma l’unica strada percorribile – almeno a detta del Comitato – è quella dell’incentivo diretto, ossia della realizzazione della rete da parte deloo Stato (la proprietà della rete sarebbe in capo a Infratel che peraltro già detiene parti dell’infrastruttura di rete a livello territoriale). Una soluzione “rapida” sul fronte delle tempistiche e che non esclude comunque le partnership contrattuali, ad esempio per la gestione delle infrastrutture. Il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli in un’intervista a Repubblica ha inoltre puntualizzato che “la Commissione europea ci ha fatto sapere informalmente di preferirla ad altre ipotesi” e ha annunciato che “il via libera formale è atteso entro gennaio”.

La proprietà della rete da parte dello Stato consentirebbe inoltre di avere in mano un patrimonio da far fruttare, magari in un secondo momento, anche con un’eventuale quotazione alla stregua di quanto fatto con Terna. Un’opzione non da poco.

Per il M5S “l’unico modo per rendere l’Italia un Paese competitivo, uscendo dalle sacche del digital divide, è la costituzione di una societa’ pubblica della rete: Ora il Governo, seppur con colpevole ritardo, ci dà ragione”.

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