Blockchain, Garavaglia: “La chiave sta nell’identità digitale”

La tecnologia può essere impiegata nelle fasi di identificazione e verifica del cliente. E l’industria che si basa sulla sharing economy può trarre vantaggi dall’adozione di una distributed ledger technology che gestisce le identità digitali

Pubblicato il 16 Set 2016

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Nel mondo delle crittovalute, di cui il Bitcoin rappresenta l’espressione più famosa, molti sono i luoghi comuni che tendono a connotarne l’impiego quale strumento che offrirebbe opportunità di anonimato (o pseudo-anonimato); una caratteristica, questa, su cui, in realtà, ci si dovrebbe interrogare. Non è mio interesse, ora, analizzare quanto sia realmente “efficace” l’esercizio di questa proprietà (in vero, molto poco …), bensì orientare l’attenzione del lettore su un tema che, a dispetto del luogo comune, vede l’impiego della blockchain, la tecnologia che sottende molte crittovalute, come strumento potenzialmente adottabile a supporto di un’accorta gestione dell’Identità Digitale.

Prima di addentrarsi nella disamina proposta con questo articolo, è utile rimarcare alcuni concetti base, chiarendone i confini e le modalità di adozione. Con il termine “crittovaluta” s’intende generalmente riferire a valute virtuali digitali (non fiat) emesse in modo decentralizzato, per le quali Il “libro mastro” può essere pubblico e distribuito (“distributed public ledger”) e nel quale sono mantenute tutte le transazioni effettuate.

Blockchain è una tecnologia che abilita persone diverse e che non si conoscono, a verificare il succedersi di transazioni in crittovaluta memorizzate sul libro mastro. Il distributed ledger viene acceduto dai partecipanti che operano sulla rete (tramite dei “nodi”) mettendo a disposizione risorse di calcolo, mediante cui si ottempera alla validazione delle transazioni, evitando, così, il ricorso ad un intermediario terzo (tali partecipanti assumo il ruolo di “Validatori”). Durante questo processo (ciò è in particolare vero per i cc.dd. “Permissionless Ledger”), possono essere coniate nuove unità di crittovaluta come sistema di remunerazione che ripaga – almeno in parte – il costo sostenuto dai “Validatori” (risorse di calcolo, energetiche, ecc.).

Guardando in maggior dettaglio le caratteristiche di sicurezza della blockchain, possiamo dire che la dispersione del registro delle transazioni è tale da garantire a tutti e in modo trasparente, la possibilità di verificare la validità di una transazione fin dalle origini e che una transazione, una volta approvata in un blocco, non potrà essere più disconosciuta. La presenza di un numero elevato di “Validatori” che ratificano le transazioni, garantisce che per inserire una transazione fasulla, sarebbe necessario mettere d’accordo – almeno – il 50% + 1 dei “Validatori”. Il modello d’incentivazione assicura che questi ultimi vengano remunerati per il loro lavoro di approvazione, solo laddove il lavoro sia stato svolto correttamente (verificato dagli altri nodi).

Sin qui s’è detto che la blockchain, a supporto delle crittovalute, garantisce l’unicità delle transazioni e l’immutabilità delle stesse, impedendo, nel contempo, che siano validate transazioni fittizie che potrebbero aggiungersi alla catena di blocchi e vanificando, parimenti, la possibilità di modificare ciò che è avvenuto in passato. Gli algoritmi su cui si basa la blockchain, consentono altresì l’impiego di tecniche di scripting, con cui è possibile abilitare i cc.dd. “Distributed Contracts” (o “Smart Contract”). Uno “Smart Contract” è un metodo di utilizzo delle crittovalute per formare accordi attraverso la blockchain, sfruttando opportunamente il quale, è possibile raggiungere altri scopi, che vanno oltre il concetto di valuta virtuale. Un esempio di applicazione dei “Distributed Contracts” sono i cc.dd. “Colored Coins”, ossia dei dati aggiuntivi (attributi) pubblicati e gestiti sul distributed ledger, che trasformano i “coins” in “token”, al fine di poter essere impiegati per rappresentare qualsiasi cosa (anche non una valuta).

Immaginando, per semplificare, che la blockchain possa essere considerata alla stregua di un database distribuito dove non esiste un amministratore centrale, in cui il commitment delle transazioni avviene basandosi sulle logiche di consenso distribuito dianzi descritte e dove sia possibile adottare tecniche evolute di scripting, non è difficile prevedere un impiego di questa tecnologia in campi anche molto diversi da quello dei pagamenti.

Se si ipotizza di scambiare su blockchain “bitcoin” come “tokens” e non come “valuta”, ecco ottenersi una sorta di registro contabile potenzialmente inviolabile, che tiene traccia di tutte le transazioni eseguite. Una distributed ledger tecnology così intesa, permetterebbe il trasferimento di proprietà di “gettoni digitali” a cui possono essere associati svariati beni e diritti nel mondo esterno (asset). Assumiamo, dunque, di poter considerare come asset, la prova dell’Identità Digitale di un individuo. A ciascun soggetto identificato, è possibile attribuire un “token” che lo autorizza a compiere azioni “fisiche” (ossia nel mondo fisco) sfruttando una tecnologia digitale distribuita e l’esecuzione di specifici “Smart Contracts”. A titolo prettamente esemplificativo, riporterò due possibili casi d’uso della blockchain così come presentata, volutamente (e provocatoriamente) tra loro molto distanti, ma accumunati dal medesimo impiego di una distributed ledger technolgy: sostengo ai processi di KYC (Know Your Customer), supporto alla sharing economy.

Nel primo caso, la blockchain potrebbe essere impiegata (ad esempio da banche) nelle fasi di identificazione e verifica del cliente, agendo come database di identità digitali blindate e crittografate, cui è possibile accedere in alternativa a database centralizzati. Ipotizzando uno scenario di “Permission Ledger” (accessibile solo da un gruppo di istituti finanziari, ad esempio), si potrebbe migliorare l’efficienza dell’intero processo: digitalizzazione delle fasi di rilascio e verifica delle identità digitali, automazione di alcuni passaggi intermedi mediante l’adozione di specifici smart contracts, che controllano (e garantiscono) la corretta esecuzione delle regole. Nel secondo caso, l’industria che si basa sulla sharing economy può trarre innumerevoli vantaggi dall’adozione di una distributed ledger technology, mediante cui sono gestite le identità digitali.

Se s’immagina di integrare una simile tecnologia direttamente all’interno dei motori di ricerca che iniziano un rapporto fra persone che non si conoscono, per poi arrivare a stabilire un accordo contrattuale fra di essi (l’uso di un locale in affitto, piuttosto che un passaggio in auto), è facile intuire come la blockchain possa contribuire alla finalità di garantire identità e reputazione di chi sta partecipando alla transazione. Anche in questo caso, l’intero processo potrebbe chiudersi in modo totalmente automatizzato, mediante l’esecuzione di uno specifico smart contract che sovrintende – anche – l’incasso contro prestazione, qui inteso come trasferimento di fondi (fiat money) dal fruitore del servizio al beneficiario.

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