Brexit, Panetta: “Su online e dati Uk vorrà rimanere agganciata alla Ue”

L’avvocato esperto di Internet e privacy: “Passata l’onda emotiva, ci saranno due anni per discutere. Su Internet nessuna conseguenza per gli utenti, ma le aziende considereranno se spostare l’headquarter da Londa”

Pubblicato il 24 Giu 2016

Antonello Salerno

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L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è certamente un fatto destinato a creare scompiglio sui mercati, ma dal punto di vista del diritto di Internet e del trattamento dei dati potrebbe non avere conseguenze dirompenti. “Intanto perché 40 anni di norme messe a punto sui tavoli europei non possono essere cancellate con un tratto di penna – spiega Rocco Panetta, avvocato specializzato nel diritto di Internet – e poi perché dopo questa prima fase dove a dominare sono le emozioni ci sarà del tempo (fino a due anni) per trattare i termini della Brexit, e gli inglesi sono i primi ad avere interesse a non rimanere completamente esclusi dall’area Euro”.

Panetta, quale sarebbe l’argomento utile per vedere il bicchiere mezzo pieno?

Preliminarmente devo dire che questa è una gran brutta storia. Per noi, generazione nata e cresciuta nel mito della grande Unione e degli Stati Uniti d’Europa, questo strappo è inaccettabile e doloroso. Detto questo, però, credo che sia necessario anche dire a chiare lettere che la Gran Bretagna dal punto di vista della sua posizione in Europa ha sempre avuto un atteggiamento ambiguo, sia dal punto di vista della partecipazione ai tavoli legislativi, sia nella modalità di implementazione delle norme e delle modalità con cui le stesse sono state “vendute” alle aziende. Hanno sempre chiesto e ottenuto deroghe, e dove non le hanno ottenute direttamente, in sede poi di recepimento, se le sono autogarantite, mantenendo un atteggiamento quasi da pietra angolare del sistema, agendo in maniera non omogenea rispetto agli altri paesi continentali, che invece soprattutto su Internet e sulla circolazione dei dati hanno fatto sempre fronte comune. L’aspetto positivo della Brexit, se mai ve ne fosse uno, è che adesso è chiaro che l’Inghilterra vuole giocare una partita diversa. Potrà negoziare dall’esterno, e questo in termini sistematici è un bene, perché escono dall’ambiguità: ora sappiamo con chi abbiamo a che fare.

Detto questo, quanta libertà di manovra avranno in questo loro nuovo status?

Credo che non abbiano convenienza ad andare in una direzione molto difforme da quella dell’Ue. Tutto il portato normativo degli ultimi 40 anni dell’Inghilterra si è generato all’interno dell’Ue, la gran parte delle norme sono analoghe. Certo, non parteciperanno più ai tavoli decisori dall’interno, ma tutta la normativa del digitale, dei dati, di Internet e del commercio elettronico l’hanno costruita nei confini dell’appartenenza all’Europa. Da domani saranno “cugini” e non più gemelli rispetto ai Paesi membri dell’Ue, ma credo che ci sarà più chiarezza.

Parliamo dei tempi. Si rischiano effetti traumatici, rispetto ad esempio all’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo sul trattamento dei dati?

Credo di no. Sulle norme in tema di data protection, ad esempio, gli stati europei hanno due anni di tempo, fino a maggio 2018, per adeguarsi. Guarda caso è all’incirca lo stesso periodo che l’Inghilterra avrà per l’uscita definitiva dall’Unione Europea. È una coincidenza di tempi che lavora a favore di un’uscita ponderata, che non crei sconquassi anche in quest’ambito. Male che vada gli inglesi assumeranno un atteggiamento ancora più vicino a quello degli Usa, potranno trovare degli escamotage per attrarre aziende sul loro territorio, provando ad esempio ad ammorbidire le sanzioni per chi non rispetta le regole, che nell’Ue arriveranno fino al 4% del fatturato globale consolidato di gruppo dell’azienda che operi non in compliance con il Gdpr, ma su consensi, informative, data breach notification e su tutti gli altri istituti del nuovo regolamento non potranno di sicuro andare in una direzione diversa da quella del resto dell’Europa.

Cosa cambierà per le aziende che hanno sede a Londra?

Molte società percepiscono il Regno Unito come un luogo più favorevole al business e semplice per le aziende per crescere rispetto all’Europa continentale, e questo proprio grazie all’ambiguità finora mantenuta dai britannici ed al loro straordinario marketing di se stessi. Da domani l’Inghilterra potrebbe cominciare a essere vista come si vede oggi la Svizzera: abbiamo già nel cuore dell’Europa una nazione forte economicamente che è fuori dall’Ue, ma che al tempo stesso fa parte del sistema economico europeo e ha regole al 90% uguali a quelle dell’Europa. Si fanno accordi con loro che di fatto estendono la valenza delle norme comunitarie anche alla Svizzera, che ha una legge sulla privacy all’80% identica a quella dell’Italia. Ma di contro le società dovranno confrontarsi con il fatto di non poter contare sui meccanismi di protezione dell’Europa, perché tecnicamente diventeranno come gli Usa, l’Asia o l’Africa, Paesi “terzi”, con meccanismi di trasferimento dei dati complicati come è successo fino a oggi con il Safe Harbour o il Privacy Shield. Si sono messi di fatto in una situazione “altra” rispetto a un blocco di 27 paesi che rappresenta un terzo dell’economia mondiale. Poi, certo, il Regno Unito sono certo che sulla questione del trasferimento all’estero dei dati, negozierà una procedura di adeguamento, proprio come ha fatto la Svizzera.

Che ricadute economiche genererà questa situazione?

Solo per fare un esempio, non potranno più godere di incentivi sulla banda larga, su cui da ora in poi dovranno fare da soli. Più in generale, a fronte di 7 miliardi trasferiti all’Europa, la Gran Bretagna beneficiava di quasi il triplo in miliardi di euro di trasferimento di fondi dall’Unione, e anche in ragione dell’accordo di febbraio, che di fatto dava loro la possibilità di godere di uno statuto speciale e che fonti di Bruxelles danno già per decaduto. Certo, la Brexit non cambierà la storia di Internet, che è sovranazionale. Internet e la sua economia continuerà a parlare inglese, o meglio, americano, e a dare l’impressione di essere un mondo transnazionale e senza regole. Per gli utenti non ci sarà probabilmente un impatto tangibile, ma per le aziende sì.

Con il Brexit si apre la prospettiva che molte aziende che avevano stabilito il proprio headquarter a Londra possano considerare il “trasloco” in altri porti europei?

Alcuni annunci sono già stati dati. La fuga da parte di alcuni grandi gruppi per certi versi è iniziata. Ma anche molti di coloro che hanno costituito piccole società in Inghilterra si troveranno di sicuro a considerare anche questa ipotesi. Non sarà necessario spostarsi di molto e difficilmente i grandi gruppi emigreranno a Roma o a Madrid, ma si chiederanno ad esempio se sia il caso di spostarsi a Dublino. Sono convinto comunque che ci saranno mille paracaduti, l’uscita è ancora tutta da trattare. Ma la logica del mercato comune non può essere ignorata da un’azienda che miri a una presenza forte sul mercato europeo. Avere il quartier generale a Londra da qui in avanti sarà come averlo a Washington, e quindi sarà inutile ai fini della penetrazione e del controllo del business nell’Europa continentale e questo un peso lo avrà tra gli effetti collaterali del Brexit.

Gli effetti finali in ogni caso saranno diversi da quelli che si prevedono oggi “a caldo”?

Oggi è il momento delle reazioni emozionali. Prevale anche ovunque una discreta dose di approssimazione e qualunquismo, ma alla fine credo che il senso di responsabilità prevarrà. Sul fronte interno a Londra, non credo che sia interesse di nessuno “ammazzare” l’economia inglese sotto il peso di una regolazione radicalmente diversa da quella europea. Arriverà presto il momento di separare la propaganda dalla sostanza. Al di là del fatto che comunque da oggi il Regno Unito si pone nei confronti dell’Ue nella posizione concorrente, con una dichiarazione di antagonismo che in ogni caso non si presta a essere letta in modo positivo.

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