Carlo Ratti: “Le città computer a cielo aperto”

Il direttore del Mit Senseable City Laboratory: “Le tecnologie digitali hanno preso piede nelle nostre città formando la struttura portante di infrastrutture intelligenti a larga scala. In Italia aree di eccellenza convivono con altre meno avanzate ma davanti abbiamo una grande opportunità””

Pubblicato il 09 Ott 2015

Mila Fiordalisi

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«Le nostre città si stanno trasformando in ‘computer a cielo aperto’. Tuttavia la definizione di smart city, pur essendo molto diffusa, non mi piace molto. Ricorda una città dove le tecnologie sono padrone degli spazi e delle persone. Al contrario, tutti questi strumenti dovrebbero essere al servizio dei cittadini». È questa la vision dell’architetto Carlo Ratti, direttore del Mit Senseable City Laboratory e fra i massimi esperti al mondo in campo di progettazione di città “intelligenti”.

Ratti, le smart city sono entrate nel linguaggio di molti. I progetti proliferano ma c’è anche molta confusione in merito. Quand’è che secondo lei una città può dirsi davvero “intelligente”?

Con un’analogia si può dire che quanto sta accadendo a livello urbano è simile a ciò che è accaduto vent’anni fa nella Formula Uno. Fino ad allora il successo su un circuito era attribuito principalmente alla meccanica dell’auto e alle capacità del pilota. Poi si è sviluppata la telemetria. L’auto è stata trasformata in un computer monitorato in tempo reale da migliaia di sensori, diventando “intelligente” e più flessibile nel rispondere alle condizioni di gara. In modo analogo, nei dieci anni passati le tecnologie digitali hanno preso piede nelle nostre città, formando la struttura portante di infrastrutture intelligenti a larga scala. Fibre ottiche a banda larga e reti di telecomunicazione senza fili supportano cellulari, smartphone e tablet che sono sempre più alla portata di tutti. Se si aggiunge una rete in continua crescita di sensori e tecnologie di controllo digitale, il tutto tenuto insieme da computer economici e potenti, le nostre città si stanno trasformando in “computer a cielo aperto”. Il nostro gruppo di ricerca si chiama “senseable city”. “Senseable”, un gioco di parole tra “sensible” e “able to sense” – in italiano potremmo tradurlo come città dei sensi o sensibile – trasmetta un’idea più corretta dei nostri obiettivi – una città dove al centro ci sono le persone e le tecnologie permettono di rispondere alle loro necessità. Di esempi in giro per il mondo, ce ne sono diversi: Singapore sta lavorando molto sulla mobilità, Boston sulle dinamiche partecipative, Copenhagen con la sostenibilità. In realtà, però, non esiste un modello univoco. È molto importante valutare sempre il contesto e l’unicità dell’ambiente urbano e culturale in cui si va ad agire.

Quali sono gli interventi prioritari per “costruire” una smart city?

Direi che non sono interventi legati alla tecnologia o alle infrastrutture. È importante innanzitutto dare ai cittadini gli strumenti adatti per capire e gestire meglio la città. Penso ad esempio alla condivisione dei dati e alla promozione di startup.

Secondo lei è possibile individuare uno “standard” globale oppure le smart city sono una questione anche “local”?

Credo che ogni città abbia esigenze diverse e che sia sempre necessario partire dal contesto locale. È evidente che una città storica italiana abbia una struttura e delle necessità differenti da una megalopoli sudamericana o da una città asiatica, costruita magari ex novo negli ultimi venti anni. Tutte le città possono però beneficiare di questi nuovi strumenti, perché le tecnologie digitali sono invisibili e leggere e si adattano a ogni ambiente urbano.

Tecnologie, fondi, vision politica: secondo lei quale di questi elementi conta di più nella progettazione di una smart city?

Sicuramente la cosa più importante è una visione corretta di quelle che sono le potenzialità dell’innovazione. Non servono fondi.

Anche l’Italia ha avviato numerosi “cantieri” smart. Ma spesso l’impressione è che si tratti di progetti fintamente “intelligenti”. Come dire, ormai va di moda parlare di smart city. Cosa ne pensa?

Non conosco così da vicino il contesto italiano, quindi non saprei dire. La mia impressione è che l’Italia sia sempre un po’ a macchia di leopardo, con aree di eccellenza che convivono con altre meno avanzate. Però credo che la rivoluzione digitale sia una grande opportunità per il nostro paese. Abbiamo un patrimonio che tutto il mondo ci invidia. Le nostre città, che non avrebbero però potuto adattarsi agli imperativi della tecnologia del secolo passato – una tecnologia pesante che viene ancora dalla rivoluzione industriale – si possono invece adattare facilmente a queste nuove tecnologie leggere, delle reti, digitale e dei sensori.

Lei è un pioniere in materia di città intelligenti: quali sono le nuove frontiere? Come saranno le città del futuro? Quando dobbiamo attenderci la vera rivoluzione smart?

La rivoluzione è già in corso, siamo già circondati, immersi in quella che viene chiamata “smart dust”. Guardando avanti credo che vedremo grandi cambiamenti nell’ambito della mobilità, un campo importante perché da esso dipendono lo stile di vita e la gestione degli spazi urbani. Le dinamiche di sharing economy stanno già modificando il modo in cui ci spostiamo; una rivoluzione che è già in corso, legata all’accessibilità dei dati: sapere qual è il posteggio di car sharing più vicino, la bici più vicina, come andare dal punto A al punto B. L’intermodalità diventerà più accessibile perché sapremo esattamente, scendendo in un punto, quando arriva il prossimo mezzo che ci porterà a destinazione. Il vero grande passo però arriverà con le auto senza guidatore, che riusciranno davvero a dare vita a un sistema di trasporto pubblico con la qualità del privato. Immagina la “tua” auto che ti porta al lavoro, poi dà un passaggio a scuola a tua figlia o a chiunque altro nella città. Secondo le nostre ricerche potremmo ridurre il numero di automobili in circolazione fino all’80% (togliendo 8 macchine su 10 dalle nostre strade!) e continuando a soddisfare la domanda di mobilità delle nostre città.

Le smart city fondano di fatto i loro pilastri sui dati digitali: non c’è il rischio che diventino sempre più bersagli degli hacker?

Il rischio sussiste. Gli attacchi hacker nei sistemi informativi non sono nulla di nuovo; vanno di pari passo con lo sviluppo delle telecomunicazioni. Uno dei primi attacchi colpì una dimostrazione radio di Guglielmo Marconi nel 1903, quando trasmise messaggi dalla Cornovaglia a Londra, a circa 300 chilometri di distanza. Nevil Maskelyne, sedicente mago e aspirante magnate del wireless, frustrato dai brevetti dall’inventore italiano, riuscì a prendere il controllo del sistema e a trasmettere messaggi osceni al pubblico scandalizzato della Royal Institution. Sebbene l’hacking sia antico quanto il wireless stesso, molto è cambiato dai tempi di Marconi. Le reti informatiche ora ricoprono il nostro pianeta, raccogliendo e trasferendo ingenti quantità di dati in tempo reale. Consentono molte attività quotidiane: comunicazioni istantanee, social media, transazioni finanziarie e gestione logistica. Cosa più importante, le informazioni non sono più relegate a un reame virtuale, ma permeano l’ambiente in cui viviamo – le nostre città appunto sempre più smart. Che cosa si fare quindi? In generale, le difese odierne prendono la forma di “supervisori” digitali, autonomi e sempre vigili – computer e codici che controllano altri computer e codici. Simili ai tradizionali protocolli militari di comando e controllo, acquisiscono potere con i numeri e possono rapidamente reagire a un’ampia serie di attacchi. Un tale ecosistema digitale rafforza i controlli e gli equilibri, riducendo la possibilità di fallimento e mitigando gli effetti di un’incursione. Un’altra opzione, sorprendentemente, potrebbe essere quella di promuovere un’estensiva diffusione dell’hacking stesso. Familiarizzare con gli strumenti e i metodi degli hacker crea un potente vantaggio nel diagnosticare la forza dei sistemi esistenti, e anche nel progettare misure di sicurezza più rigide con un approccio bottom up – una pratica nota come “white hat hacking” o “hacking etico”. Le infiltrazioni etiche consentono a un team per la sicurezza di rendere le reti digitali più resistenti all’attacco identificandone i punti deboli. E potrebbero diventare pratiche standard – una sorta di “esercitazioni antincendio cibernetiche”.

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