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Da Uber a Foodora, gig economy “disruptive” per il lavoro

L'”economia del lavoretto” è uno dei sistemi di impiego più contraddittori degli ultimi anni: niente vincoli contrattuali per azienda e lavoratore e piattaforme digitali al centro del rapporto. Ecco come stanno cambiando i modelli di occupazione

Pubblicato il 19 Nov 2016

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Secondo Fortune è il modo migliore di lavorare. Ma al tempo stesso è anche il peggiore. Non per niente la “gig economy”, letteralmente “economia del lavoretto”, è uno dei sistemi di impiego più contradditori degli ultimi anni, e affonda le sue radici già nell’America degli anni Sessanta, quando veniva chiamata “lavoro periferico” ma simile era il concetto alla base.

Cioè che il lavoratore fornisce la propria prestazione solo quando ha tempo o voglia di farlo, senza vincoli se non quello di portare a termine l’incarico. Il caso classico è quello della ragazzina che lavora come baby sitter per accudire i figli dei vicini di casa quando questi escono a cena: il rapporto di lavoro si instaura solo quando i vicini la chiamano, e termina quando rientrano a casa.

Se per un’adolescente un “lavoretto” di questo tipo può essere una manna (niente impegni fissi niente orari fissi, massima flessibilità nell’accettare o meno incarico e relativo compenso), la questione diventa un po’ più complicata per chi è alla ricerca non tanto della chimera-posto fisso, quanto di quel minimo di certezza che consenta di programmare il futuro.

Ecco perché, già nel 1969, l’economista Dean Morse scriveva che questo tipo di lavoro rappresenta “un allargamento dell’area di scelta dell’esperienza lavorativa, e per questo è positivo. D’altro canto, in questo modo il lavoratore periferico viene trattato come un lavoratore di serie B, e ciò non può che portare a rifiuto, frustrazione, rabbiosa disperazione”.

Parole profetiche: quasi 50 anni dopo le cronache si sono riempite del caso Foodora, startup tedesca emblema della gig economy che consegna cibo a domicilio con i suoi rider (fattorini in bicicletta). E proprio i lavoratori-ciclisti, che macinano chilometri in cambio di pochi euro, hanno protestato a Torino (unica città italiana assieme a Milano dove il servizio è presente) contro la politica dell’azienda, che di recente ha rivisto le modalità di pagamento passando dal corrispettivo orario al sistema del cottimo.

Sistema che, soprattutto in Italia, ha una connotazione particolarmente negativa essendo stato, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, al centro di dure lotte sindacali nelle fabbriche. E che ora ha fatto gridare i sindacati allo scandalo, accusando le imprese della gig economy di “caporalato digitale”.

La differenza tra il “lavoro periferico” di cinquant’anni fa e quello di oggi è proprio la parola “digitale”: nella gig economy, infatti, la domanda e l’offerta di lavoro si incontrano online attraverso app dedicate. Il caso più noto è Uber, ormai colosso globale, ma altri esempi fioriscono ogni giorno.

E assieme all’espansione di questo modello economico fioriscono anche le proteste: prima di Foodora era stata la volta, a Londra, di Deliveroo, e prima ancora di UberEats.

Proteste che, a meno di interventi legislativi che regolino e disciplinino il settore, sono verosimilmente destinate a ripetersi in futuro: secondo uno studio di Lawrence Katz e Alan Krueger, ricercatore ad Harvard il primo e a Princeton il secondo, il 16% della forza-lavoro americana è costituita da lavoratori atipici (era il 10% dieci anni fa e il 9% vent’anni fa), e sebbene il settore della gig economy assorba solo lo 0,5% del totale dei lavoratori Usa, la percentuale è destinata a crescere nei prossimi anni.

Anche perché, secondo uno studio del McKinsey Global Institute, i dati ufficiali fotografano una realtà parziale, mentre la forza lavoro impegnata nel lavoro atipico è molto più alta (il 27% negli Usa e il 25% in Europa, con picchi del 30% in Francia e del 31% in Spagna).

Le statistiche, peraltro, includono anche dati relativi alla sharing economy, che è altro dalla gig economy sebbene spesso i due modelli vengano confusi: dare un passaggio a pagamento in auto a una persona che deve raggiungere la stessa destinazione (come BlaBlaCar, sharing economy) non è certo la stessa cosa di prendere l’auto, caricare un cliente, portarlo dove desidera e tornarsene a casa (Uber, gig economy). In entrambi i casi il “datore di lavoro” è un’app e in entrambi i casi il “lavoretto” non ha i classici vincoli previsti dai rapporti di lavoro.

Ciò che cambia sono l’obiettivo (abbattere i costi nel primo caso, portare a casa la pagnotta nel secondo) e, parallelamente, le aspettative del lavoratore e le sue richieste di tutele e di stabilità. Che nel variegato mondo della gig economy sono destinate ad aumentare.

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