PROFESSIONI EMERGENTI

Data scientist: un must negli Usa, l’Italia li snobba

I professionisti del dato sono ritenuti indispensabili nelle aziende straniere. “Invece da noi – dice Guido Guerrieri, executive partner di Reply – pochi si cimentano in questo mestiere nonostante l’elevato potenziale e l’ottima retribuzione”

Pubblicato il 17 Feb 2014

Dario Banfi

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È la professione più sexy del 21° secolo secondo Harward Business Review e la terza più richiesta in Rete per LinkedIn. I data scientist sono figure misteriose per molti aspetti, piuttosto difficili da reperire sul mercato e sicuramente preziose in epoca di social network e big data. Contrariamente alla cultura digitale in stile 2.0, non sono giovani e rampanti, geniali neolaureati o eclettici programmatori con il vezzo della matematica. In media hanno più di 40 anni e un background eterogeneo in materia di business, percorsi professionali non del tutto lineari, ma solide competenze nell’area computazionale, matematica e statistica. Hanno nel proprio Dna un po’ di storia della computazione informatica e dello sviluppo dei database, capacità di creare modelli matematici e una conoscenza non superficiale di settori economici legati al mass market.

Che cosa fanno? Assistono il business nell’identificare trend, modelli di sviluppo e algoritmi per ottimizzare processi o rendere gli investimenti più profittevoli. “Il fatto curioso è che ogni società ha oggi più dati di quanti riesca ad analizzare”, sostiene Mario Alemi, partner di secureco.pro, società che si definisce “data science boutique company”. Questo non vale soltanto per chi è passato da zero a un miliardo di utenti in dieci anni, i big dell’e-commerce e delle Tlc, ma per tutte le società, Pmi incluse.

I settori ai quali si applica il data science sono i più diversi. Lo testimonia lo stesso Alemi, che ha lavorato per società come Anobii ed Electonic Arts e oggi presta consulenza a Mondadori. “Principalmente costruisco algoritmi per definire politiche di prezzo, creare correlazioni virtuose nelle piattaforme di e-commerce o valorizzare le nicchie di consumatori”. Gli strumenti del data scientist sono principalmente teorici, linguaggi di programmazione e tool informatici. “Un data scientist conosce la statistica meglio di un programmatore, ma sa programmare meglio di uno statistico”, precisa Alemi. “Non è un teorico, ma si sporca le mani con i dati. Oltre a saperli manipolare, conosce database e strumenti, per lo più open source. E se non sono adeguati, deve saperli perfino creare!”.

Di opinione leggermente diversa è Nicola Risoli, evangelist di Visual Analytics per Sas Institute, società leader nel segmento della business intelligence, che ricorda l’importanza del software e di “strumenti che sono il risultato di ricerca avanzata e di team di sviluppo che lavorano per mesi, se non addirittura anni, nella definizione degli algoritmi più adeguati, grazie anche al confronto continuo con casi reali di business”. Per Risoli la sfida dei big data è crescente e per certi aspetti inedita. “Siamo di fronte a una svolta epocale, ovvero alla possibilità di arricchire dati interni alle imprese con quelli esterni, provenienti da social network e Internet”. Questo rende più vicino l’obiettivo predicato per anni dalla business intelligence: aiutare le decisioni di chi ha responsabilità nella pianificazione strategica.

E per far attecchire questa nuova classe di “scienziati dei dati” anche nel mercato italiano, Sas Institute ha deciso di puntare anche sulle leve più giovani, fornendo strumenti teorici e applicativi al Master in Customer Experience e Social Media Analytics di Tor Vergata, partito a Roma il 13 gennaio scorso, primo master in Italia che ha l’obiettivo di formare proprio i data scientist. Per Alessandro Santi, senior manager di Ntt Data Italia, è necessario comunque maturare esperienza sul campo e analizzare dati reali, con la finalità di passare dal semplice data discovery a fornire informazioni utili. “Il vasto bouquet di skill al quale attinge, dalla matematica alla statistica, dalla progettazione alla business analysis, dalla programmazione ai database, non sono sufficienti al data scientist senza una reale contiguità al business”.

Di recente Santi ha lavorato su analisi predittive per il segmento delle Telco. “In passato si analizzavano i consumi, oggi siamo in grado, pesando correttamente il valore sociale degli utenti, reputazione delle imprese e sentiment diffuso in Rete tra i consumatori, di predire anche variazioni di mercato o suggerire nuovi portafogli d’offerta”. Chi compra oggi data science? Tre aree interne alle imprese: il marketing, la ricerca e sviluppo e l’IT. I settori sono potenzialmente interessati sono moltissimi. In testa ci sono Gdo, Credito e Assicurazioni, Telco ed Editoria.

La digital intelligence, suggerisce Gabriele Rapino, analytics consultant di 3rdPlace, “può aiutare la pianificazione di campagne Sem e di marketing online, gli investimenti sui canali social più utili in vista di obiettivi predefiniti o, più in generale, tutte quelle forme di business che oggi sono data driven”.

Il data science è comunque ancora poco diffuso nel nostro Paese. “Il riconoscimento del suo valore è ancora basso. Diverso negli Usa, Paese ossessionato da statistiche e trend”, dice Guido Guerrieri, executive partner di Reply. “Eppure i dati sono sempre esistiti in azienda, usati forse in maniera poco produttiva. Oggi però abbiamo tecnologie e strumenti teorici maturi, pronti ad affrontare le sfide dei big data, ma senza data scientist capaci di interpretarli e la volontà di investire in questa direzione saranno ugualmente inutilizzati”. Nonostante l’elevato potenziale e l’ottima retribuzione offerta dal mercato, pochi si cimentano in questo mestiere. “È davvero appassionante, un bel gioco – continua Guerrieri – che offre grandi opportunità di lavoro, più di classiche professioni liberali alle quali aspirano i giovani studenti italiani”.

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