Digital economy, i dati miniera d’oro ma occhio alla tutela

L’attuale regolamentazione dei processi di trattamento fondata sui tradizionali schemi potrebbe non essere più opportuna. Serve un nuovo bilanciamento tra privacy e crescita economica. L’analisi di Giovanni Crea

Pubblicato il 09 Dic 2016

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Con la diffusione delle Ict, la produzione di contenuti rappresentativi di realtà ed esperienze è divenuta un’attività costante dell’uomo che, nel tempo, si è estesa alle macchine e, da ultimo, agli elementi dell’ambiente (things). Le logiche della data economy hanno altresì evidenziato come il trattamento dei suddetti contenuti sia divenuto una funzione pressoché inevitabile alla luce della capacità del software di elaborare vasti ed eterogenei insiemi di contenuti e di produrre delle «utilità»; sotto questo aspetto, gli addetti ai lavori, ricorrendo a un parallelismo con il petrolio – data is the new oil of the digital economy, è il titolo di un articolo apparso sulla rivista Wired nel luglio 2014 – hanno osservato come i big data, alla stregua di questa risorsa, a poco servono se non vengono ‘raffinati’.

Un tale processo appare poi indispensabile in un’economia postfordista, dal profilo sempre più digitale, in cui le imprese, secondo i casi, perseguono scopi di sopravvivenza ovvero di espansione (anche fino a raggiungere un potere di mercato). La data economy – e, più in generale, l’economia digitale – ha radici in quella “nuova economia” che, a partire dall’esperienza della fornitura dei primi servizi internet – si pensi all’accesso a internet, al servizio di hosting, alla corrispondenza elettronica – si è poi evoluta con l’affermazione di piattaforme di intermediazione di cui i servizi di ricerca in rete, i social media e, da ultimo, i siti che, come Uber e Airbnb, facilitano scambi e condivisione, sono tra gli esempi più noti.

Questi stessi esempi descrivono un modello aziendale il cui valore è derivato dal trattamento di contenuti informativi e conoscitivi, e può essere impiegato sia per la creazione di servizi innovativi (ad esempio, “Street view” di Google) sia per la misurazione di fenomeni sociali sia, ancora, come leva di scambio sui versanti pubblicitari (una piattaforma social verosimilmente cercherebbe di sfruttare il profilo dei propri utenti per scopi di raccolta pubblicitaria; si veda, sul punto, E. Pedemonte, Google, Facebook, i nuovi monopoli e gli ideologi della Silicon Valley, in Scientific journal on digital cultures, vol 1, n. 2, 2016, 27-34. A. Passoni, Economia delle piattaforme e architettura digitale delle scelte. Appunti sull’alternativa cooperativa, reperibile all’indirizzo http://archiviomarini.sp.unipi.it/688/).

L’economia digitale sta attraversando una fase caratterizzata da questioni e sfide di notevole portata legate all’avvento delle piattaforme in internet, la cui natura ‘multiversante’ e transfrontaliera denota una diversa strutturazione della filiera di generazione del valore. In relazione a tale diversità, la regolamentazione dei processi di trattamento fondata sui tradizionali schemi potrebbe non essere la più opportuna; condizione, questa, che non esclude nuove riflessioni sul bilanciamento tra la necessità del trattamento dei contenuti da un lato – nella misura in cui esso si riconduce a un’iniziativa economica e al suo contributo alla crescita dell’economia digitale – e, dall’altro, i diritti individuali e altri ‘beni’ di interesse generale sui quali il trattamento medesimo può avere effetto.

Sappiamo, al riguardo, che le piattaforme in rete sono sottoposte alle norme dell’Ue che ne disciplinano i comportamenti con riferimento ai profili della concorrenza, dei diritti dei consumatori, della protezione dei dati, dei diritti di proprietà, della responsabilità extracontrattuale. Ma non va nemmeno sottaciuto come nell’economia digitale trovino applicazione teorie, paradigmi e istanze – la “coda lunga” di Chris Anderson (immagine della frammentazione della domanda che ha segnato il passaggio dall’economia di massa, caratteristica del periodo ‘fordista’, a un’economia fondata sulla differenziazione del prodotto), le utilizzazioni libere, l’open access – che stanno influenzando i concetti di privacy e proprietà (intellettuale e industriale). Così come il modello della condivisione (sharing), oltre a prefigurare un allentamento dei regimi di protezione della conoscenza – con l’adozione di sistemi di commons, se non di open access – per ricreare condizioni di apertura, sta modificando i ruoli della domanda e dell’offerta; sotto quest’ultimo aspetto vanno segnalate le esperienze di collaborazione tra imprese e consumatori nella progettazione di nuovi prodotti, ma anche la tendenza di questi ultimi (tradizionalmente riconosciuti come parte debole) a svolgere, sia pure occasionalmente, la funzione di prestazione di servizi avvalendosi di piattaforme in rete. Scenari, questi, che delineano un rafforzamento della posizione dei consumatori (empowerment) anche sul piano del controllo del trattamento dei contenuti che li riguardano.

D’altro canto, va osservato come, alla luce delle pratiche che stanno emergendo da questi e altri mutamenti, le tradizionali categorie giuridiche appaiano sempre più deboli sul piano dell’applicazione effettiva delle norme. Un punto, questo, su cui la Commissione europea non fa mistero (si veda, al riguardo, Commissione europea, Le piattaforme online e il mercato unico digitale. Opportunità e sfide per l’Europa, comunicazione com(2016) 288, 25 maggio 2016) e che forse richiede un ripensamento sugli schemi normativi più adeguati per regolare i nuovi modelli di produzione; il che, in altre parole, significa valutare la prospettiva dell’adozione di strumenti – non esclusivamente giuridici – che non costituiscano una barriera predefinita alla circolazione delle conoscenze, e che tuttavia possano garantire a proprietari e interessati strumenti tecnici (oltre che diritti) attraverso i quali proteggere, nei limiti stabiliti dalle stesse norme, i contenuti che li riguardano da trattamenti non autorizzati ovvero controllare i processi di trattamento a cui detti contenuti possono essere sottoposti. Un tale approccio riposa su meccanismi in cui entrano in gioco la fiducia e la reputazione, e su principi di autodeterminazione – la libertà dei proprietari di stabilire se e in che misura condividere i propri contenuti – e di “protection by design”.

Quest’ultimo profilo, trasposto sul piano digitale, rimanda al concetto del “codice informatico” di Lessig che il giurista statunitense ha introdotto per indicare il trasferimento nel software delle regole di protezione (code as law), e di cui non mancano esempi in tal senso; dalle tecnologie di tipo Digital Rights Management, impiegate per la protezione di contenuti digitali coperti da un diritto di proprietà, alle privacy enhancing technologies, che, seguendo l’approccio privacy by design, adottato nell’ambito della disciplina del trattamento dei dati personali, sono progettate per inibire ex ante il tracking occulto dei dati personali e, più in generale, per impedire trattamenti illegittimi, alle tecnologie di protezione delle banche dati.

E, anzi, a ben vedere, nell’ecosistema digitale il code è una misura tecnica che abilita la facoltà di autodeterminazione dei titolari dei contenuti, e che, in tal modo, va oltre quel meccanismo giuridico fondato sull’autorizzazione preventiva (opt in) che, in particolare sul fronte della privacy, ha sempre rappresentato una pietra miliare della disciplina europea.

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