LA PROPOSTA

Digital Single Market, siamo proprio sicuri?

Al Digital Venice si è riaperto il dibattito sul mercato unico per le comunicazioni elettroniche e su una singola Autorità di settore. Ma sarà davvero la soluzione? O non si rischia piuttosto l’effetto boomerang?

Pubblicato il 21 Lug 2014

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Ci risiamo, è ripartita la solfa del mercato unico europeo per le comunicazioni elettroniche e di una sola autorità di settore con indirizzo a Bruxelles.

Le dichiarazioni in laguna del Presidente del Consiglio Matteo Renzi sul Single Market sono state inequivocabili anche se poi si dovrà vedere se realmente rappresenteranno un filo conduttore del semestre di Presidenza italiana del Consiglio Ue.

I fans di questa idea, per la verità non nuova (ci provò a suo tempo anche il commisssario Viviane Reding), sostengono che l’Europa deve superare la condizione di frammentazione del mercato continentale in tanti mercati nazionali. Differenze di norme e regole, di fiscalità, di vincoli, che impedirebbero alle imprese di affrontare, come dovrebbero, la concorrenza con i giganti extraeuropei, specialmente nel settore dell’innovazione e del digitale. Idea in astratto plausibile, ma che si scontra con la dura realtà proprio dei mercati nazionali.

Il caso italiano è in questo senso paradigmatico. La concorrenza esiste, ma certamente non ha raggiunto livelli adeguati, con l’ex monopolista ancora dominante nel mercato dell’accesso alle reti. Per non parlare dei processi di consolidamento che un Single Market inevitabilmente porterebbe, ovviamente a scapito delle nostre aziende più piccole. Certo gli operatori maggiori, che in Europa sono principalmente gli incumbent, si avvantaggerebbero, ma in definitiva la scelta determinerebbe un forte detrimento di quel pluralismo industriale che molti speravano connaturato alla rivoluzione digitale. È poi tutto da dimostrare che un mercato unico determini vantaggi nello sviluppo degli investimenti per la larga banda. Non si capisce perché una telco tedesca o francese dovrebbe realizzare in Italia quelle infrastrutture che non sono state ritenute ancora remunerative (soprattutto per assenza di domanda interna) dalle imprese italiane. Quanto ad un’unica autorità di settore, lo scenario più che prevedibile ci riserverebbe il solito scarso peso degli italiani nelle decisioni prese a Bruxelles, così come è successo ampiamente nel governo della Commissione.

C’è poi una regola aurea: ci si mette insieme se le posizioni nazionali esprimono rapporti di forza omologhi. La condizione italiana è lungi dall’essere considerata paragonabile a quella dei paesi maggiori del continente (le classifiche che periodicamente ci propina il settore sono lì a dimostrarlo impietosamente).

Per diverse ragioni l’Italia ha perso in questi ultimi anni primati che ci venivano invidiati. C’è molto da fare a livello nazionale prima di imbarcarsi in questa avventura. L’impressione è che la politica nostrana, invece di intervenire con azioni concrete (il ritardo nella realizzazione delle reti di nuova generazione è sotto gli occhi di tutti), lanci la palla lontano nella speranza, purtroppo vana, che qualcuno nei palazzi di Rue de la Loi ci tolga le castagne dal fuoco. Intanto, una prima e negativa risposta l’Unione europea già l’ha mandata. La richiesta del Presidente del Consiglio di non conteggiare nel patto di stabilità le spese per la realizzazione delle infrastrutture digitali è stata rispedita al mittente.

Se questa è l’Europa a cui ci vogliamo affidare meglio allora andarci cauti.

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