IL COMMENTO

Freedom of information act, i pregi e i difetti della versione italiana

Ora anche nel nostro Paese è possibile l’accesso civico, il diritto a ottenere qualsiasi informazione detenuta dalla pubblica amministrazione e da altri soggetti, senza necessità di motivare la richiesta. Ma mancano le sanzioni. L’analisi di Riccardo Puglisi

Pubblicato il 24 Mag 2016

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Finalmente è stato emanato il Freedom of information act (Foia) italiano, all’interno del primo decreto attuativo della riforma della pubblica amministrazione: da un diritto a ottenere informazioni soltanto su se stessi si passa a un diritto a ottenere qualsiasi informazione detenuta dalla pubblica amministrazione e da altri soggetti, senza necessità di motivare la richiesta (“accesso civico”). Gli “altri soggetti” includono le società partecipate, insieme con fondazioni e associazioni di dimensioni medio-grandi e con finanziamento pubblico preponderante. Il decreto legislativo è in attesa della “bollinatura” da parte della Ragioneria generale dello stato, ma il testo disponibile online permette di formulare un primo giudizio di merito. L’Italia era indietro di parecchi decenni rispetto agli Stati Uniti, in cui vige un Freedom of Information Act (Foia) dal lontano 1966, mentre in Gran Bretagna una normativa analoga è stata introdotta nel 2000. Il principio alla base del Foia è che “le informazioni detenute dalla pubblica amministrazione appartengono ai cittadini”, i quali dunque possono richiederle senza avanzare alcuna giustificazione per farlo. La richiesta deve essere celermente esaudita a meno che non sussistano esigenze di segreto e di riservatezza, che sono disciplinate dalla legge ed esplicitamente elencate: ad esempio, motivi di sicurezza nazionale, ordine pubblico e stabilità economica dello stato. Sotto questo profilo, non si può che apprezzare il fatto finalmente anche i cittadini italiani abbiano il diritto a un “accesso civico”. Meglio tardi che mai.

Un aspetto apprezzabile del decreto è che l’obbligo di consentire l’accesso civico ricade non solo sulle pubbliche amministrazioni, ma anche sulle società partecipate da parte dello stato e dagli enti locali e su associazioni e fondazioni, purché (i) siano di dimensioni medio-grandi (bilancio superiore al mezzo milione di euro), (ii) siano finanziate per più della metà da risorse pubbliche e (iii) gli ordini direttivi siano designati da pubbliche amministrazioni. Il fine è quello di allargare l’ambito del diritto anche a soggetti che “assomigliano” alle pubbliche amministrazioni a motivo di un legame di finanziamento, partecipazione e nomina con queste ultime. L’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo inserisce un articolo 5bis nel decreto legislativo 33 del 2013 (cosiddetto “decreto trasparenza”) in cui si esplicitano i casi in cui le pubbliche amministrazioni possono rifiutare in maniera motivata l’accesso civico (entro trenta giorni), cioè quando il diniego serve per “evitare un pregiudizio concreto” (non solo potenziale) ad alcuni interessi pubblici che includono l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, le relazioni internazionali e la difesa, la stabilità economica e finanziaria dello stato, la conduzione di indagini su reati e lo svolgimento di ispezioni. Il diniego è possibile anche per evitare un pregiudizio concreto a interessi privati specifici, ovvero la protezione della privacy, la libertà e la segretezza della corrispondenza e gli interessi economici di una persona fisica o giuridica. Nessuno dovrebbe stupirsi del fatto che il meccanismo incentivante della trasparenza non sia assoluto, ma debba tenere conto di esigenze di segretezza e riservatezza ritenute in certi casi meritevoli di maggiore tutela. Tanto per fare un esempio, non è accettabile che chicchessia possa avere accesso a informazioni relative a iniziative di prevenzione e repressione del terrorismo, per il rischio concreto di indebolirne o annientarne l’efficacia.
Dall’altro lato, suscita maggiori perplessità il fatto che la preparazione delle “linee guida” sull’effettiva attuazione dei limiti all’accesso civico sia demandata (ancora una volta) all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, senza che il decreto legislativo imponga direttive più precise. Il punto cruciale è che l’ampiezza delle aree di diniego al diritto di accesso civico potrebbe essere più o meno estesa a seconda delle scelte di Anac e Garante della privacy. Il decreto stabilisce anche norme relative all’accesso a dati statistici grezzi detenuti dalle pubbliche amministrazioni, a vantaggio di ricercatori che presentino un progetto di ricerca ritenuto “adeguato”.

Il punto dolente dell’accesso civico – una volta introdotto in corso d’opera l’obbligo di motivare il diniego ed eliminata la previsione del pagamento di una tassa per esercitare il diritto – sta nel fatto che non esistono sanzioni importanti, ad esempio di carattere pecuniario o nella forma di pubblicità negativa, qualora i responsabili dell’esercizio dell’accesso civico dentro le pubbliche amministrazioni non provvedano entro trenta giorni a esaudire la richiesta. A una prima lettura, mi sembra che il mancato adempimento degli obblighi si concretizzi soltanto in un possibile illecito disciplinare, che l’Anac deve segnalare all’amministrazione interessata (nuova versione dell’articolo 45 del decreto trasparenza). Se “a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”, sul tema cruciale dell’apparato sanzionatorio a garanzia dell’accesso civico, che di fatto è incomparabilmente meno severo di quello previsto per la tutela della privacy, sia dal lato amministrativo che penale, il sospetto è che la strada della trasparenza sia ancora piuttosto lunga.

*L’articolo è stato pubblicato su Lavoce.info

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