L'ANALISI

Gig economy, quali prospettive per i riders? La questione è aperta

La Corte d’Appello di Torino ha ribaltato il verdetto di primo grado, che aveva qualificato i ciclofattorini di Foodora come lavoratori autonomi riconducendo le prestazioni dei fattorini ad un genere ibrido. Ma serve trovare una soluzione alle nuove forme di lavoro. L’analisi del giuslavorista Mario Fusani

Pubblicato il 27 Feb 2019

Mario Fusani

giuslavorista e socio fondatore dello studio legale GF Legal

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La Corte d’Appello di Torino ha ribaltato il verdetto di primo grado, che aveva qualificato i ciclofattorini della piattaforma tedesca Foodora come lavoratori autonomi. Il giudice d’Appello, infatti, ha ricondotto il lavoro dei riders alle cosiddette “collaborazioni organizzate dal committente” previste dall’art. 2 del decreto legislativo n.81 del 2015. Per tali collaborazioni è prevista l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato nei casi in cui la prestazione di lavoro personale venga organizzata dal datore di lavoro in riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro.

Secondo la Corte D’Appello la norma in questione individua un terzo genere che si frappone tra il rapporto di lavoro subordinato e le collaborazioni autonome, proprio al fine di garantire una appropriata tutela alle nuove fattispecie di lavoro nate anche grazie alle più recenti tecnologie. Nel dettaglio, la collaborazione comporterebbe una integrazione del lavoratore nella organizzazione del committente, andando oltre la semplice collaborazione autonoma, ma senza sforare nella eterorganizzazione, tipica del lavoro subordinato.

Ne deriva, in sintesi, che i riders restano tecnicamente lavoratori “autonomi”, in quanto il suddetto art.2 non comporta costituzione di un rapporto lavoro subordinato tra le parti, ma hanno diritto ad alcune tutele tipiche del lavoro dipendente (ad es. retribuzione, ferie e previdenza).

La riconducibilità, da parte della Corte d’Appello di Torino, del rapporto dei riders ad una disciplina a metà tra rapporto autonomo e subordinato, ricorda quanto successo nel Regno Unito, primi con gli autisti di Uber e poi con alcuni riders della piattaforma Citysprint. I giudici d’oltremanica hanno riconosciuto lo status di “worker” anche ad alcuni riders, che fino ad a quel momento erano ritenuti “self-employed”, cioè lavoratori autonomi. Quella del worker è una categoria intermedia tra lavoratore autonomo e subordinato, molto simile alle collaborazioni di cui all’art. 2 del d.lgs 81 del 2015. La disciplina giuridica dei worker, contenuta nell’Employment Rights Act del 1996, prevede, infatti, che vengano riconosciuti alcuni diritti tipici della subordinazione, anche se i lavoratori non vengono riconosciuti come dipendenti.

Anche in altri, paesi, quindi, i nuovi lavoratori della gig economy hanno generato la necessità di trovare nuove forme di lavoro.

Tornando in Italia, recentemente, è stata approvata dalla Regione Lazio la proposta di legge n.40 che garantisce importanti tutele non solo ai riders, ma a tutti i lavoratori della gig economy. La proposta prevede il divieto di pagamento a cottimo, il diritto alla tutela contro infortuni e malattie professionali, nonché un obbligo, per il datore di lavoro, di organizzare incontri per la formazione dei lavoratori.

La proposta di legge può essere un punto di partenza, ma da sola non è sufficiente. Al di là del fatto che la proposta sembra che non tenga conto di una rilevante questione: i riders sono lavatori autonomi o dipendenti? L’intervento regionale avrebbe, come tale, una portata territoriale limitata (una sola regione su tutto il territorio nazionale) e comprime la possibilità per le parti sociali di negoziare tenendo presenti le specificità del comparto.
La Corte D’Appello di Torino, invece, è intervenuta, ad esempio creando una breccia nella dicotomia tra autonomia e subordinazione e riconducendo le prestazioni dei fattorini ad un genere ibrido. È lecito ritenere che il Collegio Torinese abbia ricondotto le prestazioni dei riders alle collaborazioni organizzate dal committente anche con l’intento di incentivare le trattative sindacali tra lavoratori e piattaforme.

Nel Regno Unito la qualificazione di worker è affidata di volta in volta al tribunale. Vi è bisogno, quindi, di un giudizio. Il secondo comma dell’art. 2, invece, prevede la possibilità per le rappresentanze sindacali di stabilire una disciplina specifica che regoli il trattamento economico e normativo sulla base delle esigenze del settore di riferimento. Le parti hanno, quindi, l’opportunità di derogare la disciplina legislativa secondo le peculiarità della attività lavorativa. Tali accordi potrebbero anche definire quali lavoratori debbano ritenersi collaboratori, quali autonomi e quali subordinati, anticipando eventuali contenziosi.

In altri ambiti questo tipo di percorso ha comportato diversi vantaggi. Nel settore del cineaudiovisivo, ad esempio, è stato recentemente siglato un protocollo di accordo con cui le parti sociali hanno individuato alcuni criteri utili ad individuare quali lavoratori debbano essere considerati autonomi e quali subordinati, limitando le incertezze relative all’inquadramento e riducendo, di conseguenza, il numero dei contenziosi.

@RIPRODUZIONE RISERVATA

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