Giuliano Poletti: “Dal Jobs Act una spinta al lavoro ad alta qualificazione”

Il ministro del Lavoro dà la sua ricetta per rimettere il Paese in linea con il resto dell’Europa: “Non servono riforme epocali ma strumenti di attuazione, monitoraggio e valutazione dei risultati. Forte sinergia tra la nuova Agenzia nazionale e le azioni delle Regioni”. Digitale come leva di rilancio dell’occupazione: “I fondi devono indirizzare al meglio i bandi sulle risorse comuni, in modo da privilegiare le professioni più richieste”

Pubblicato il 15 Dic 2014

Federica Meta

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Privilegiare la formazione di qualità, anticipando le richieste del mercato del lavoro e sfruttando meglio di quanto fatto finora i fondi destinati al settore. Il minsitro del Lavoro, Giuliano Poletti, dà a Cor.Com la ricetta per rilanciare gli e-skills in Italia, sottolineanco come il governo consideri centrale il tema.
Il Paese rischia di perdere la sfida del rilancio occupazionale ad alta specializzazione. Secondo recenti stime nel 2020 potrebbero mancare circa 176mila figure specializzate in Ict. Pensa che sia un tema che dovrebbe interessare il governo e state pensando a qualche iniziativa in tal senso?
La formazione professionale è certamente uno strumento essenziale per accompagnare i processi di cambiamento del mercato del lavoro. Si tratta, tuttavia, di un settore che non ha bisogno di riforme epocali, ma di strumenti di attuazione, monitoraggio e valutazione dei risultati. Per troppi anni troppi fondi (europei, statali e regionali) sono stati attribuiti senza alcun riguardo ai contenuti ed ai risultati della formazione erogata. C’è quindi la necessità di agire per lo più in via amministrativa, per privilegiare la formazione di qualità, quella cioè che crea professionalità richieste dal mercato del lavoro e talvolta ne anticipa le necessità. Le leggi possono aiutare in qualche modo questo processo: il Jobs act, ad esempio, contiene, tra i criteri di delega, un rafforzamento della capacità di raccolta ed acquisizione dei dati, azione indispensabile per addivenire ad un sistema coordinato e governabile.
Nel jobs act c’è un riferimento alla formazione. Lei ha fatto cenno alla necessità di rivedere il sistema di formazione regionale: come si coordina la nuova Agenzia nzionale con il ruolo svolto dalle Regioni?
La formazione professionale è, a costituzione vigente, una materia di competenza esclusiva regionale. Le regioni pertanto sono responsabili sia dal punto di vista della regolazione normativa, sia da quello della competenza gestionale; sono responsabili della definizione dell’offerta formativa nel proprio territorio e possono pertanto delinearne le modalità, utilizzando meccanismi più o meno attenti alle esigenze degli utenti ed a quelle della domanda di lavoro, presente e prevedibile Questo non significa che non via sia un ruolo per lo Stato centrale – cui spetta la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni – e del ministero del Lavoro, che deve svolgere una funzione rilevantissima di coordinamento, monitoraggio ed introduzione di elementi di valutazione. Non va inoltre dimenticato che la formazione professionale costituisce uno degli strumenti principali di politica attiva del lavoro e non può pertanto essere considerata un mondo a se stante rispetto all’intervento delle istituzioni per contrastare la disoccupazione di lunga durata. In questa prospettiva l’Agenzia nazionale dovrebbe occuparsi, in particolare, di mettere in sinergia le politiche occupazionali (attive e passive) e, con riferimento alla formazione, che sia in grado di fornire un aiuto efficace a quei disoccupati che necessitino di adeguare le proprie competenze alle esigenze del mercato del lavoro.
Il governo punta a creare un welfare che “segua” il lavoratore. Come intendete muovervi sul tema della formazione continua, soprattutto in un settore come quello dell’Ict che in Italia sta espellendo personale che si deve riqualificare.
In tema di formazione continua la scelta del legislatore, sin dal 2000, è stata quella di affidare a fondi interprofessionali, costituiti dalle parti sociali, la gestione dei fondi finalizzati al finanziamento della formazione per occupati. Si tratta di una scelta in linea con quanto già sperimentato con successo da altri paesi europei. I fondi interprofessionali in questi anni hanno dato prova di poter essere uno strumento utile per la gestione delle crisi ed un importante supporto alla riqualificazione dei lavoratori. Occorre tuttavia evitare di disperdere le risorse in mille rivoli, trovando sistemi per concentrare maggiormente il settore, migliorando il monitoraggio delle attività ed innescando meccanismi di valutazione dei risultati.
Che ruolo possono avere le imprese dell’Ict e dell’economia digitale?
Le imprese hanno la possibilità di essere coinvolte, dato che i fondi interprofessionali hanno meccanismi di finanziamento che privilegiano la capacità delle imprese stesse di delineare i percorsi formativi più utili alla propria attività. Vi è, d’altra parte, la necessità che i fondi indirizzino al meglio i bandi sulle risorse comuni, in modo da privilegiare le professioni più richieste e da guidare le imprese più piccole verso percorsi più utili.
Come ripensare anche il ruolo delle università che secondo la “Carta di Bologna” devono essere le strutture chiave per la formazione continua?
Le università possono essere la sede privilegiata per una parte della formazione continua, quella di livello più elevato, ed è particolarmente importante il legame con l’apprendistato che si è creato con l’introduzione dell’apprendistato di alta formazione. È tuttavia verosimile che la maggior parte della formazione continua resti nelle mani di altri soggetti. Ciò che è essenziale, tuttavia, è che la formazione professionale ed il sistema di istruzione convergano verso un unico sistema in cui sia possibile muoversi da un percorso all’altro facendo valere, attraverso il sistema dei crediti, le competenze già acquisite.
Oggi in Italia non c’è un matching efficiente che faccia incontrare domanda e offerta di lavoro. Intendete ripensare questo sistema?
Vi è, in effetti, in Italia un problema di matching tra domanda ed offerta di lavoro. Un primo nodo è rappresentato dall’insoddisfacente rapporto tra la formazione scolastica e le effettive esigenze del mercato del lavoro; un secondo dalla fragilità del sistema delle politiche attive per il lavoro. La riforma del lavoro e la riforma della scuola promosse dall’attuale Governo hanno, tra l’altro, la finalità di intervenire su questi nodi.
Nel Documento di economia e finanza il governo ha pensato a sgravi fiscali per le ristrutturazioni delle casa. Perché non pensare anche a sgravi fiscali per chi investe nella propria formazione, come già accade in Germania e Danimarca, ad esempio?
Come detto prima, la scelta, fatta ormai da quasi un quindicennio, è stata quella di finanziare la formazione continua con un contributo obbligatorio da parte dei datori di lavoro (lo 0,30% delle retribuzioni imponibili) e di destinare questo finanziamento, per il tramite dei fondi interprofessionali, allo stimolo della domanda di formazione da parte dei datori di lavoro. Alla base di questa scelta vi è la considerazione per la quale i datori di lavoro sarebbero maggiormente in grado di identificare le necessità di formazione più utili allo sviluppo competitivo dell’impresa. Quello dell’incentivazione del singolo è sicuramente una delle strade astrattamente percorribili; un’altra strada, che non richiede l’utilizzo di risorse economiche aggiuntive, è però quella di rendere maggiormente evidente il ritorno dell’investimento in formazione, in termini di chances di carriera e di miglioramento della propria remunerazione. Per fare ciò è necessario aumentare la qualità della formazione, innescando – mediante la valutazione dei risultati – meccanismi virtuosi di ricerca dell’efficienza e dell’efficacia degli interventi formativi.

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