IL PROTAGONISTA

Greg Horowitt: “Una rainforest per l’Ict anche in Italia”

Il fondatore di Global Connect e capo del fondo T2 Venture Capital spiega come realizzare una Silicon Valley nel nostro Paese: “Bisogna ripartire dalle nuove tribù social per rilanciare la competitività”

Pubblicato il 20 Lug 2012

Luciana Maci

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«L’Italia ha un grande potenziale nell’innovazione grazie al suo storico patrimonio di creatività. L’industria del design, che si è imposta in tutto il mondo, è caratterizzata da massima cura nei dettagli, nella qualità e nella realizzazione. E il pensiero creativo è fondamentale per essere innovatori. Negli Usa si dice: roots before branches, le radici prima dei rami. Io penso che molte radici, qui in Italia, ci siano già». A sostenerlo è Greg Horowitt, californiano guru dell’innovazione, fondatore di “Global Connect”, un think tank che ha attuato 57 programmi di innovazione in 23 Paesi. Dopo la laurea in biochimica ed economia, ha avviato una start up nel settore tech a San Diego per poi diventare un venture capitalist. È alla guida di “T2 Venture Capital”, fondo d’investimento focalizzato in esperienze innovative di forte impatto nel settore delle tecnologie e sanitario ed è membro di “The Society of Kauffman Fellows”, network internazionale di venture capitalists. Ospite di “Working Capital Accelerator”, progetto di Telecom Italia per sostenere le migliori idee imprenditoriali legate a tecnologie e innovazione, Horowitt ha spiegato la metodologia del modello Silicon Valley, che lui paragona a una foresta pluviale. Per sua natura caotica e casuale, è rigogliosa e ricca di frutti come lo sono le start up innovative, che si rafforzano grazie alla diversità e agli inter-scambi.
Quanto è determinante la disponibilità di risorse economiche per far crescere una “foresta pluviale” dell’Ict anche in Italia?
Il denaro è un mezzo, non un fine. La ragione per cui il venture capital può aiutare gli innovatori è perché hanno bisogno di “smart money”, denaro intelligente. Quando un innovatore riceve un finanziamento per la sua azienda il valore che dà in cambio è cosa conosce e chi conosce. D’altro canto si sta imponendo il concetto di investimento globale e diverse persone preferiscono dare soldi fuori dalla cerchia del vicinato. Ma l’elemento determinante è riuscire ad avere collaborazioni intelligenti. Perciò se io, venture capitalist negli Stati Uniti, voglio investire in Italia, lo farò con un partner credibile di cui ho fiducia e con cui condivido idee che ritengo buone. Bisogna finanziare le persone e non i progetti, scegliendo sulla base di tre “i”: capacità di integrare, di ispirare, di avere impatto.
Come creare l’ecosistema giusto nel nostro Paese? Le autorità governative dovrebbero fare da guida o si devono mettere in moto, per proprio conto, i venture capitalists e gli start-upper?
In ogni Paese è differente. Per l’Italia una buona soluzione potrebbe essere una collaborazione tra pubblico e privato. Ma, per evitare fraintendimenti, ognuno deve sapere quale è il suo ruolo. Il governo riveste un ruolo molto importante, ma ci vogliono i capitalist per far accadere le cose. Di solito il settore pubblico ha una buona piattaforma comunicativa e, si spera, la capacità di dare ispirazione, ma deve poi mettere in grado il privato di portare avanti i progetti.
Non pensa che in Italia ci sia ancora una quota di arretratezza nel settore delle nuove tecnologie, soprattutto se ci confrontiamo con gli Usa?
Ci state seriamente lavorando. Gli italiani, per come li ho conosciuti, preferiscono focalizzarsi su quello che non hanno, piuttosto che sulle risorse che possiedono. I veri imprenditori sono tutti estremamente ottimisti ma anche visionari, immaginativi e perseveranti. Sono queste le persone di cui c’è bisogno.
Eppure lei, parlando di un progetto di innovazione tecnologica avviato in Colombia, ci ha paragonato al Paese latino-americano.
Sì, per molti versi le due realtà sono simili. La differenza sta nelle risorse naturali come minerali e petrolio, che la Colombia ha e l’Italia no, ma entrambi i Paesi possiedono un’eredità storica fatta di deficit di infrastrutture, corruzione, strade e autostrade inefficienti o inadatte, ed entrambi sono frammentati in regioni, mentre la leadership politica è migliorata moltissimo in un periodo di tempo relativamente breve. Tuttavia l’Italia, come dicevo prima, ha il grande dono della creatività, e questo fa la differenza.
A proposito di frammentazione, pensa che la tendenza italiana all’esaltazione dell’individualismo si adatti alle social communities che lei ritiene alla base dei processi di innovazione?
L’individualismo è fantastico. La società statunitense è basata su meritocrazia e affermazione dell’individuo, eppure le persone sono capaci di lavorare in gruppo in modo molto positivo. Perciò c’è bisogno di entrambe le cose. Quindi io dico agli innovatori italiani: mantenete la vostra identità, non abbiate paura di essere diversi, ma nemmeno di condividere il vostro sapere. D’altra parte in Italia la forza delle reti sociali è impressionante. È davvero notevole come usate Twitter, Facebook e i blog. Si deve partire da queste “tribù di fiducia sociale” efficienti per consentire la circolazione delle idee.
In particolare cosa ne pensa dei giovani protagonisti dell’innovazione nel nostro Paese?
Ho conosciuto dei veri fenomeni. All’evento organizzato da Telecom Italia ho incontrato, tra gli altri, Marco De Rossi e Annibale D’Elia e ho avuto l’impressione di persone veramente impegnate, con un autentico desiderio di cambiamento. E il cambiamento avviene grazie a una di queste tre cose: una crisi, un ordine che viene dall’alto o la volontà sociale. La prima e la terza sono ottimi fattori trainanti. È terribile sprecare una crisi: anche se ci sono implicazioni negative, se ne possono ricavare grandi vantaggi perché è un’occasione di rinascita e rende la gente più umile, la convince a mettersi in gioco tutti insieme.
Eppure i giovani innovatori italiani si contano sulle dita di una mano, mentre nell’ambiente dell’Ict continuano a circolare molti senior.
Sì, penso che dovreste coinvolgere di più questi giovani pensatori “pazzi”, che pensano come se vivessero fuori dal contesto. Per loro il contesto non esiste ed è per questo che riescono a essere visionari. Negli Stati Uniti l’età media della maggior parte degli imprenditori del settore è 25 anni. D’altra parte che c’è anche bisogno di persone con più esperienza, che sappiano condividere con i giovani idee, saperi e competenze. La diversità è importante, è una ricchezza.

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