LO STUDIO

I big data? Gli italiani li temono e non li sanno “valorizzare”

È quanto emerge dallo studio “Retail Transformation 2.0” a firma di Digital Transformation Institute e Cfmt. La maggioranza dei cittadini consapevole dei benefici nell’acquisire informazioni ma meno della metà ne conosce potenzialità e benefici per automatizzare tutta una serie di attività

Pubblicato il 17 Mar 2020

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I big data? Poco conosciuti e spesso anche temuti. È quanto emerge dalla ricerca “Retail Transformation 2.0″ realizzata da Digital Transformation Institute e Cfmt dedicata a indagare il fenomeno nel nostro Paese.

Secondo i risultati dello studio quasi 9 italiani su 10 sono consapevoli del fatto che acquisire informazioni su un prodotto o un servizio è oggi molto più facile che in passato. Questo anche grazie alla raccolta e analisi di Big Data, tecnologia però ancora poco conosciuta considerato che solo 4 su 10 (dato di poco più elevato rispetto al 2018) affermano di avere familiarità con la tecnologia. Pochi, quindi, coloro che hanno chiaro il meccanismo della raccolta dati finalizzata a personalizzare offerte commerciali e informazioni. Pochi anche rispetto ad altre tecnologie digitali con cui gli intervistati mostrano maggiore familiarità come social network (95% quelli che affermano di sapere di cosa si tratta), intelligenza artificiale (82%), innovazione sostenibile (76%) e realtà aumentata e virtuale (75%).

Ai big data vengono attribuiti i significati di “raccolta”, “informazioni”, “enormi”, “analisi”, con alcune definizioni (“grandi quantità di dati, che presi insieme occupano molto spazio di archiviazione, nell’ordine dei Terabyte, provenienti da più fonti, ma integrabili”) più realistiche di altre: “Qualcuno che raccoglie e archivia i fatti miei” o “L’oro dei giganti del web; quelli che controllano quasi tutto (Google e Microsoft)”.

I big data però, spiega la ricerca, possono esser e utili per addestrare le macchine a svolgere lavori in precedenza prerogativa delle persone, con molti italiani che ritengono che le AI siano già molto più efficienti dei lavoratori in carne e ossa: ad esempio nel trovare il percorso più rapido in città (73%), investire in Borsa (37%), arbitrare una partita di calcio (34%) diagnosticare malattie (29%) o svolgere le faccende domestiche (28%). Resistono invece quali attività per le quali l’uomo viene considerato ancora necessario la scrittura di articoli di giornale (75%, ma nel 2018 era il 79%); comporre musica (71%, -6%); presentarci potenziali amici (69%, -5%); selezionare il personale più adeguato per una azienda (65%, -4%); emettere giudizi e sentenze legali (65%, -9%); guidare (56%, -4%).

L’informazione personalizzata con i big data è percepita come tale solo dal 15% degli intervistati, con un 53% a cui è capitato di provare. Il 44% delle persone sostiene di essere interessato a questo tipo di servizio, con un incremento del 7% rispetto alla prima edizione della ricerca. A fronte di un 29% di italiani che si sentono del tutto a proprio agio a fronte di informazione personalizzata, c’è un 24% che percepisce una situazione di disagio causato, per alcuni, da “sensazione di essere controllato e spiato” o per il non potersi “sottrarre alla pubblicità, non avere tregua rispetto all’invadenza”.

I big data ispirano però anche dei genuini timori: “Anche se si parla tanto di nuove norme e nuove politiche aziendali dei giganti del web, finché useremo i social network i nostri dati personali non saranno al sicuro”, sostengono alcuni intervistati dalla ricerca. Sette italiani su 10 la pensano in questo modo, con un incremento significativo rispetto all’edizione 2018 della ricerca, in particolare per i Millennials (+6%), la Generazione X e le persone con competenze digitali buone (+4%).

“Quella degli utenti è una percezione – dice Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute – che evidenzia un rischio reale. In effetti ci troviamo per la prima volta nella storia dell’uomo di fronte ad alcuni attori, molto pochi e molto grandi, che disponendo delle informazioni degli utenti detengono nelle loro mani un potere enorme. Il potere che deriva dalla conoscenza di abitudini, gusti, intenzioni, convinzioni, modelli di percezione del mondo. E che grazie al quale sono in grado, questi stessi elementi, di influenzarli. Ciò non vuol dire certo che tali attori siano dei “nemici” da combattere, ma senz’altro quella che qualcuno chiama la società delle piattaforme, perché non sviluppi quello che Zuboff definisce il capitalismo di sorveglianza, va ripensata nelle norme, nelle dinamiche, nei principi”.

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