Mooc: l’acronimo dimenticato nella riforma della scuola

I massive online open courses sono piattaforme digitali che offrono gratuitamente corsi universitari e materiale didattico per la scuola secondaria. La riforma della scuola presentata dal Governo non li prende neanche in considerazione

Pubblicato il 17 Set 2014

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I MOOC TRA LUCI E OMBRE

Nel programma di riforma del sistema educativo La buona scuola, presentato dal ministro Stefania Giannini e da Matteo Renzi con ambizioni roboanti, stupisce un po’ l’assenza totale, nelle 136 pagine del rapporto, di un acronimo che ci si sarebbe aspettati di veder citato da un premier avvezzo agli inglesismi: Mooc. I massive online open courses sono piattaforme che offrono gratuitamente corsi universitari e materiale didattico per la scuola secondaria (Khan Academy), decollate nel 2008 e cresciute con una dinamica esponenziale negli ultimi anni. Si tratta della classica disruptive innovation e lo mostrano i numeri: Coursera, leader del settore, vanta 9 milioni di studenti iscritti in tutto il mondo, 453 corsi e partnership con università di diversi paesi per l’offerta e lo sviluppo di corsi ad hoc. Non è affatto certo che i Mooc possano costituire il futuro dell’educazione, e, anzi, ci sono diversi campanelli d’allarme. In primis, l’elevatissimo tasso di abbandono, spesso superiore all’85 per cento: molte delle persone che iniziano un corso, cioè, non lo portano a termine. In secondo luogo, quello che si presenta come un modello volto a estendere l’accesso all’istruzione di qualità a chi ne è escluso, per il momento mostra evidenze non incoraggianti: dei milioni di iscritti, infatti, l’80 per cento viene dagli Stati Uniti o da un paese Ocse e, informazione ancora più saliente, si tratta di persone già altamente istruite, spesso in possesso di una laurea. C’è poi una questione assolutamente rilevante che concerne il modello di business delle piattaforme-aziende e i problemi di copyright (condivisione gratuita di materiale coperto da diritti d’autore): Coursera, Udacity, Edx, a un certo momento dovranno cominciare a produrre reddito e profitti, altrimenti non è chiaro dove possa portare questa proliferazione, se non a una sorta di bolla in pieno stile dotcom di inizio millennio. A dire il vero, su questo fronte cominciano a esserci già le prime risposte: Coursera ha prodotto il primo milione di dollari di ricavi, grazie al sistema della Signature Track: gli studenti, pagando piccole somme (dai 10 ai 50 dollari), ottengono un certificato ufficiale dell’università per il corso portato a termine con successo. Sono state poi annunciate le prime partnership con gli editori, per cui chi acquista un libro ottiene automaticamente l’accesso ai contenuti di un corso associato allo stesso. E Udacity ha lanciato, in collaborazione con AT&T e Georgia Tech, il primo master interamente basato su corsi Mooc, al prezzo di circa 6mila dollari (con un risparmio dell’80 per cento sulle tasse universitarie tradizionali) e un profitto intorno ai 5 milioni di dollari, suddivisi tra Georgia Tech (40 per cento ) e Udacity (60 per cento).

PERCHÉ È UNA RIVOLUZIONE

Quale che possa essere il futuro di questo mercato, si tratta innegabilmente di una rivoluzione e, principalmente, per tre motivi, che hanno attirato anche l’attenzione dell’Economist:
1) l’effetto Baumol, per cui il costo unitario in un’organizzazione ad alta intensità di lavoro, quale l’istruzione, grava moltissimo su un settore a bassa crescita di produttività. Ciò si riflette nel tempo in un aumento delle tasse con, tuttavia, pressioni crescenti sulla sostenibilità dei bilanci di molti atenei (in un clima, per altro, di forte austerità della spesa pubblica, nonostante gli annunci di investimenti di Renzi) e anche degli istituti della scuola primaria e secondaria;
2) la dinamica del mercato del lavoro: la crescente automazione e gli effetti dell’innovazione tecnologica portano a rapidi cambiamenti. Un lavoro empirico dell’Università di Oxford stima che il 47 per cento dei lavori attuali possa essere automatizzato in un futuro prossimo e di conseguenza molti adulti sopra i 30 anni di età potranno manifestare, e presto, la necessità di reinvestire in capitale umano per acquisire nuove competenze professionali;
3) l’innovazione tecnologica che, indubbiamente, ha consentito la dinamica esponenziale delle piattaforme Mooc attuali e che promette di sostenerne a lungo la crescita, anche se è da capire in quale direzione.
La qualità delle infrastrutture e l’alfabetizzazione digitale saranno, sempre più, elementi centrali per garantire al sistema educativo di rispondere a un quadro della domanda e dell’offerta didattica in profonda e accelerata trasformazione: al di là, dunque, delle dichiarazioni contenute nel capitolo 3.5 e 3.7 de “La buona scuola”, serve rapidamente un piano per invertire la tendenza, che mostra invece l’Italia arrancare nella classifica globale in termini di agenda digitale, con una scivolata deprimente al novantottesimo posto.
L’innovazione dei Mooc pone questioni rilevanti anche rispetto al modo di interpretare la didattica: in particolare, questi strumenti sono basati sul cosiddetto modello della flipped classroom (classe capovolta). Gli studenti di un corso Mooc, cioè, seguono individualmente le lezioni video messe a disposizione dal docente di turno, mentre nell’interazione di classe successiva alle lezioni discutono di eventuali problemi o degli esercizi assegnati. Da uno studio sperimentale condotto dalla San José University su un corso offerto sia attraverso la piattaforma Mooc sia nel modo tradizionale in aula, è risultato che nel primo caso ha passato l’esame il 91 per cento degli studenti, contro il 55-59 per cento nel secondo. Un vantaggio abbastanza chiaro della flipped classroom è che, data la struttura stessa del corso, per chi lo segue non è possibile rimanere indietro (e abbiamo visto che il problema sta lì, principalmente, e su questo le piattaforme stanno appunto proponendo soluzioni).
Harvard e Mit che, per prime, hanno investito sui Moocs creando Edx, ciascuna con 30 milioni di dollari, hanno dichiarato che il loro obiettivo principale è di natura scientifica: queste tecnologie, infatti, offrono dati unici, utili per l’analisi dei meccanismi di apprendimento e per il miglioramento dell’offerta didattica. Un’altra fonte di reddito potenziale è legata alla vendita dei dati dei Mooc con finalità di assunzione: cedere ad aziende le informazioni sugli studenti più brillanti può costituire un valido strumento per le risorse umane di una grande come di una piccola organizzazione.

ITALIA IN RITARDO

L’Italia è parecchio indietro: abbiamo visto che solo due università sono partner di Coursera, mentre si segnalano alcune start-up molto promettenti e innovative che hanno un focus, tuttavia, sulla scuola secondaria: Oilproject e Redooc. Tuttavia, al di là di quello che potrà succedere con la rivoluzione dei Mooc, lo scenario più probabile, e già in atto in realtà, è quello di una forte divaricazione tra università top e università mediocri: i migliori atenei, in grado di offrire a una platea globale i corsi dei loro professori-star, per di più a costi irrisori, potranno beneficiarne, mentre quelli mediocri potrebbero trovarsi completamente spiazzati dalla massiccia diffusione di didattica di eccellenza, senza un adeguato piano di regolazione e gestione. L’Economist traccia uno scenario da incubo per il mercato educativo, facendo il confronto con quello per certi versi simile dell’informazione: se al mondo delle università succedesse quello che è accaduto ai giornali dopo l’avvento di Internet, si assisterebbe a un crollo dei ricavi degli atenei del 50 per cento, una riduzione occupazionale del 30 per cento e la chiusura di centinaia di istituzioni. Per un sistema come quello italiano, che versa in gravi condizioni, come mostra ancora una volta Education at a Glance 2014 dell’Oecd, è un momento cruciale. L’Italia ha meno laureati di Francia, Regno Unito, Portogallo e anche della Grecia, ma quello che colpisce di più è la distanza dai paesi meglio posizionati: 22 per cento di laureati contro oltre il 40 per cento (tra i 25-34enni). Con una situazione critica sia sul lato della domanda sia su quello di un’offerta, l’oblio su un acronimo ci sembra nascondere una sottovalutazione (il che è peggio) di una questione strategica determinante per il futuro della buona scuola.

Tratto dal sito lavoce.info

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