IL REPORT

L’Ocse promuove lo Startup Act italiano. Ma il venture capital resta la “bestia nera”

Secondo l’organismo internazionale la policy consente alle imprese di aumentare il fatturato e il valore degli asset di circa il 10-15% facilitando anche l’accesso al credito. Ma per fare il salto servono più capitali di rischio che stentano ad entrare in scena. Firpo (Mise): “Necessaria una politica industriale solida per attrarre talenti”

Pubblicato il 26 Set 2018

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Le startup italiane che hanno avuto accesso alle misure dello Startup Act hanno aumentato il loro valore e avviato, per la prima volta nel nostro paese, la formazione di un ecosistema di giovani imprese innovative. Lo conclude l’Ocse in uno studio, presentato oggi presso l’aula dei gruppi parlamentari della Camera a Roma, in cui fornisce una valutazione indipendente e complessiva dello Startup Act italiano e una prima stima dell’impatto della policy sulle imprese beneficiarie e sull’ecosistema imprenditoriale del nostro paese.

Dai risultati, illustrati da Nick Johnstone, head of Policy division, science, technology and innovation directorate, Ocse e da Carlo Menon, economist, Policy division, STI, Ocse, emerge che lo Startup Act consente alle startup di aumentare il fatturato, il valore aggiunto e gli asset di circa il 10-15% rispetto alle startup simili che non ne hanno beneficiato. Inoltre le imprese iscritte hanno una maggiore probabilità di ottenere prestiti dalle banche (circa 8-16 punti percetuali in più di vedere accettata la richiesta di credito). Le imprese beneficiarie hanno anche più del doppio delle probabilità di ricevere un finanziamento di venture capital entro in primi tre anni di vita rispetto alle imprese non iscritte come startup innovative.

Tuttavia gli effetti positivi a livello di impresa non sembrano tradursi in un volume significativamente più elevato di investimenti in venture capital a livello aggregato. Lo studio dell’Ocse conclude che è necessario adottare una serie di azioni politiche a carattere “orizzontale”, che esulano dal programma specifico dello Startup Act, per creare un ecosistema complessivo più favorevole alle startup in Italia.

“Lo Startup Act è importante perché mette insieme un pacchetto completo di misure per rendere l’economia più dinamica ma restano degli ostacoli, tra cui la disponibilità di finanziamenti e la comunicazione dalle imprese innovative verso gli investitori per far capire il proprio valore e la propria portata innovativa”, ha sottolineato Johnstone. Altra nota dolente: la burocrazia continua a rallentare la capacità dell’Italia di creare nuova impresa.

Gli economisti dell’Ocse rilevano anche l’eterogeneità nell’impatto dello Startup Act a seconda che le startup si finanzino mediante equity o debito. Grazie al sistema pubblico di garanzia l’accesso ai prestiti bancari migliora significativamente, ma le imprese che non ricorrono al sistema di garanzia e riducono l’equity gap aumentano di più il loro valore netto, ha sottolineato Manon.

Sul nodo del capitale è intervenuto Luca Carabetta, vice presidente della Commissione attività produttive della Camera e membro dell’Intergruppo parlamentare per l’innovazione, garantendo che il governo andrà avanti sullo Startup Act con una seconda fase più focalizzata sul venture capital. Carabetta ha riportato la posizione del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio che ha annunciato l‘avvio entro fino anno di una piattaforma pubblica per stimolare gli investimenti e il mercato del venture capital chiedendo a investitori istituzionali come le casse di previdenza e le assicurazioni di sbloccano parte dei soldi oggi impegnati in titoli di Stato o immobili e indirizzarli verso il mondo dell’impresa innovativa.

Avviato nel 2012, lo Startup Act ha provveduto, per la prima volta in Italia, a stimolare il mondo delle startup. La policy dedicata include una serie di strumenti complementari tra cui la modalità di costituzione online gratuita, gli incentivi fiscali per gli investimenti in equity, un sistema di garanzia pubblica per l’accesso al credito bancario. La prima fase ha puntato sulla creazione dell’ecosistema, mentre la fase di stimolo del venture capital, ha osservato Stefano Firpo, Direttore generale per la politica industriale, la competitività e le Pmi, è un passo successivo che richiede dotazioni finanziarie ben più corpose dei 30 milioni di euro con cui partì sei anni fa lo Startup Act. Riuscire ad attrarre investitori esteri non è necessariamente un fatto negativo per le imprese italiane, ma l’importante è che il lavoro, i talenti, la ricerca restino radicati nel nostro paese, ha concluso Firpo, ricordando il ruolo chiave della formazione. “Non credo che l’educazione professionalizzante possa essere affidata alle università e penso che sia compito primario della politica industriale creare occasioni di impiego e di futuro per i giovani”.

Il ruolo dello Stato nel venture capital resta il nodo più dibattuto: secondo Carlo Mammola, Ad, Fondo italiano di investimento Sgr, intervenuto nella tavola rotonda che ha discusso i risultati dello studio Ocse, lo Stato può intervenire anche senza mettere denaro ma dando incentivi al sistema tradizionale degli investimenti sia con forme di moral suasion sia con stimoli fiscali. Per Paolo Sestito, Responsabile del servizio struttura economica, Banca d’Italia, gli interventi di sostegno o stimolo devono coprire l’intera filiera industriale – non solo le startup, dunque, perché il cambiamento si genera dal tessuto imprenditoriale complessivo.

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