TASSARE INTERNET?

Oltre la webtax, Tomassini: “L’alternativa tax per click”

Il partner dello studio Dla Piper: “L’elusione fiscale non riguarda solo le multinazionali digitali ma si è diffusa in maniera preoccupante con lo sviluppo dei business legati al web. Per questo servono nuovi modelli di tassazione”

Pubblicato il 17 Mar 2014

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“Oggi legittimamente alcune major dell’e-commerce, e non solo, operano in vari Stati pagando poche tasse nel rispetto delle regole fiscali internazionali”. L’avvocato Antonio Tomassini, partner responsabile del dipartimento Tax in Italia dello studio Dla Piper, parla da tecnico: stando così le cose, Google & Co fanno il loro gioco.

“La tassazione del commercio elettronico è una delle principali problematiche a livello di fiscalità internazionale. Se ne parla in sede Ocse, ma fino a oggi non si è risolto granché”. Tomassini fa riferimento al Beps, sigla che sta per Base Erosion and Profit Shifting, il piano discusso in occasione del G20 di Mosca, che dovrebbe nell’arco dei prossimi due anni agire contro il “turismo” dei profitti che segue le rotte della convenienza fiscale. L’abitudine non è recente e non riguarda solo le multinazionali digitali ma si è diffusa in maniera preoccupante con lo sviluppo dei business legati al web. Tomassini ha seguito da vicino le contorsioni della webtax, ha analizzato la questione in punta di diritto e sa che la strada è ancora lunga. “Lo spirito del legislatore era nobile – dice -, ma lo strumento destava grandi perplessità sia alla luce dei trattati europei sia rispetto alle regole sull’Iva. L’approccio per risolvere la questione può essere solo internazionale”.


Avvocato, però lei osserva che anche quel livello non è facile. Perché l’Ocse non ha risolto granché?
Perché si vanno a toccare le potestà impositive dei vari Stati. Pensiamo solo alla concorrenza fiscale che c’è in Europa, dove, per esempio, l’Inghilterra detassa chi porta brevetti e sviluppa ricerca. O il Lussemburgo che ha un regime di grande attrazione per le holding. Evidentemente non è un problema solo italiano.


Come si possono ridurre le maglie legislative nelle quali le multinazionali digitali si infilano per eludere le tasse?
Bisogna superare soprattutto il concetto di “stabile organizzazione” nel commercio elettronico, cioè il braccio della società straniera che opera in un determinato Paese. Se una società di e-commerce è basata in Irlanda e ha clienti che comprano in Italia perché vende servizi online o pubblicità, come faccio a dire oggi che quella società che non ha niente in Italia deve pagare tasse in Italia? C’è quindi la necessità di condividere a livello internazionale nuovi modelli di tassazione dell’e-commerce.


Quali modelli si potrebbe applicare?
Si potrebbe seguire una vecchia idea sviluppata a livello Ue, anche se l’approccio è rivoluzionario: fissare una base di tassazione comune per imprese che operano in più Paesi comunitari. La società deve scegliere uno Stato di riferimento ma poi deve dichiarare gli altri Stati dove opera e concordare un livello di tassazione minimo. Un progetto di difficile realizzazione, visto che ogni Paese ha le sue prerogative e le difende. Ci sarebbe un altro modo…


Quale?
Ripartire il carico impositivo a seconda del numero degli utenti. Se io so quante persone si collegano al sito X dall’Italia, quanti clienti comprano dal sito Y, sulla base dei click posso tentare di definire il carico fiscale.


Una sorta di tax per click…
Diciamo così. Sarebbe un modo per rendere misurabile ciò che oggi il fisco non riesce a intercettare. Dobbiamo capire che nei nuovi business immateriali i concetti tradizionali non funzionano più.


Vuol dire che Google è difendibile?
Sì, attualmente sì. Perché c’è l’immaterialità di un business che si può governare dall’estero. Nel mondo dell’economia reale vado a controllare se c’è una stabile organizzazione. Oggi questa è la regola e, nel caso specifico, fa riferimento alla presenza di un server nel territorio del Paese. Il criterio è inadeguato, perché è fin troppo evidente che io posso collocare il mio server in qualsiasi paradiso fiscale e operare tranquillamente in Italia.


Ma se la società ha uffici in Italia?
Non basta per dire che ha una stabile organizzazione. Esegue dei compiti (promuovere vendite, fare pubblicità, etc) e riceve una commissione per quel che fa. Il fisco da parte sua non si accontenta di quella quota del fatturato ma su business immateriali è più difficile aggredire quegli imponibili perché il concetto di stabile organizzazione è fondato su profili di materialità. Le regole tradizionali non sono più sufficienti. È arrivato il momento di cambiarle.

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