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Open data, l’Italia si dia una mossa: ora coinvolgere gli utenti

Il processo di apertura dei dati procede con lentezza. Per accelerare serve puntare su modelli culturali e organizzativi in grado di sostenere il cambiamento

Pubblicato il 18 Mar 2015

Tommaso Del Lungo

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Si è da poco concluso l’Open data Day, la giornata internazionale che ha avuto una eco anche nel nostro paese e che ha, però, anche mostrato come lo scenario italiano relativo a questo tema proceda con infinita lentezza, e anzi sembri mostrare una vera e propria battuta di arresto. Per invertire questa tendenza occorre cambiare approccio ed applicare modelli basati sull’engagement ovvero sul coinvolgimento dell’utenza (sia interna alla PA che esterna). Il punto è che negli anni passati sono state numerose le iniziative attraverso cui l’Italia ha mostrato di credere veramente in questa opportunità, a partire dalla strategia lanciata nel 2011 che prevedeva la pubblicazione del portale dati.gov.it e la diffusione del Vademecum per gli open data per le amministrazioni pubbliche. Nel 2013 c’è stata poi la sottoscrizione del “open data charter” il documento attraverso cui i paesi del G8 si impegnavano a mettere in campo azioni per “aprire” il proprio patrimonio informativo relativo a 14 aree fondamentali per lo sviluppo economico (tra cui scuola, trasporti, salute, criminalità, giustizia, ecc). Infine risalgono all’anno scorso le Linee Guida Nazionali per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico e dell’Agenda Nazionale Open Data.

Ciononostante nella classifica globale Global Open Data Index 2014, pubblicata da Open Knowledge Foundation, l’Italia risulta essere solo venticinquesima con un balzo indietro rispetto all’anno precedente di ben 5 posizioni. Anche Open Data Barometer (una delle ricerche più importanti per valutare lo stato di salute dell’open data nel mondo) è poco clemente con noi e ci posiziona tra le nazioni “emergenti”.
Non buone notizie dunque, per chi si aspettava che la strategia intrapresa con tanto ardore negli anni passati portasse buoni frutti, ma allo stesso tempo un campanello di allarme importante che ci deve avvertire e aiutare a cambiare rotta se vogliamo sfruttare il potenziale racchiuso nel nostro patrimonio pubblico che – secondo le stime dell’Unione Europea – potrebbe valere fino a 5 miliardi di euro con ricadute sui territori per oltre 60 miliardi.

Il punto è che, come molti altri progetti di innovazione, l’approccio open data corre tre pericoli. Il primo pericolo è quello dell’autoreferenzialità. Spesso in Italia abbiamo avuto grandi progetti molto interessanti ed innovativi, con pochissimo impatto sui territori, perché non sono stati pensati per rispondere a bisogni reali dell’utenza esterna, ma ad esigenze interne. Un secondo pericolo è quello dell’adempimento. Traghettare una amministrazione verso l’open data implica un cambiamento culturale. È il riflesso di una riorganizzazione. Se non si capisce questo, pubblicare on line i dati resterà sempre la risposta ad un adempimento formale e non potrà avere ricadute positive. Infine l’ultimo rischio è quello di realizzare iniziative che si rivelano utili solo per gli addetti ai lavori o per gli utenti più esperti, dando vita, così, a nuove forme di esclusione.

Come si vede il rischio è di ottenere un risultato esattamente opposto a quello a cui si aspirava.
Questa situazione, però, è globalmente condivisa. I problemi che ha l’Italia sono gli stessi che stanno affrontando, o hanno affrontato poco tempo fagli altri paesi e le soluzioni sono più o meno note e condivise a livello globale. Tra queste c’è il modello dell’Open Data Engagement descritto da Tim Daves e l’Open Community Data che suggerisce di mettere al centro i problemi e i bisogni del target di riferimento. Secondo tale prospettiva, le comunità (i cittadini, le imprese, le istituzioni) devono essere non un accessorio successivo e aggiuntivo rispetto alle scelte tecnologiche, bensì il punto di partenza e il metodo con cui e per cui costruire le direzioni e le scelte, anche quelle tecnologiche.

Quattro gli elementi portanti di questo approccio: meno leggi e più manuali, meno adempimenti e più confronti orizzontali; una tecnologia amica che aiuti a leggere ed interpretare i dati; la proposta di un approccio non solo tecnologico, ma che prenda in considerazione elementi di formazione, comunicazione e creazione di competenze; il coinvolgimento, l’ascolto e la partecipazione civica come elemento centrale per la creazione di valore.
Una delle PA che sta portando avanti questo approccio è la Regione Lazio, con il progetto Open Data Lazio realizzato da Lait spa con il contributo di Sinergis, Forum PA e Depp. A fine mese verrà presentato il portale dati.lazio.it mentre le attività di formazione e affiancamento sono già partite e stanno mostrando i primi frutti.

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