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Per fare l’Italia digitale ci vogliono Pmi digitali

Le nuove tecnologie sparigliano i giochi sia per i fruitori sia per i produttori di beni e servizi. Le Pmi sono la spina dorsale della nostra economia, ma senza il “salto” nell’era digitale non saranno in grado di competere e di sostenere lo sviluppo del Paese. Molti i nodi da sciogliere ma anche le opportunità

Pubblicato il 03 Apr 2015

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Come diceva Albert Einstein, “la crisi è la migliore benedizione di un Paese perché porta progressi: dalla crisi nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie”. C’è la crisi, insomma, ma ci sono anche le opportunità. O meglio, la trasformazione dettata dall’avvento del digitale: il fattore di cambiamento che ha sparigliato (e continua a sparigliare) i giochi, sia per chi produce o eroga servizi sia per chi li utilizza o li consuma. Il digitale che, secondo molti, sarà la mossa vincente per le Pmi.

Le Pmi, è cosa nota, sono la spina dorsale dell’economia del nostro Paese: impattano per più del 70% su Pil (il 56% in Francia, il 54% in Germania, il 50% in Gran Bretagna) e hanno dimensioni molto ridotte: la quasi totalità del valore viene creata da aziende con meno di 10 dipendenti. Quelle che attualmente hanno più lucidità e capacità di crescita, nonché conti tendenzialmente in attivo, sono le Pmi vocate all’export, le cosiddette “multinazionali tascabili”. Il discorso cambia in peggio per chi invece ha come orizzonte il mercato interno, soprattutto in un’ottica di filiera.

La sfida attuale è basata sul bisogno di aumentare la performance aziendale, ridurre i costi ma al tempo stesso ritrovare competitività anche se bisogna cambiare bruscamente strategia, modalità di produzione o di vendita. L’esternalizzazione e la delocalizzazione è una risposta in realtà limitata. Il digitale è invece la mossa che può dare l’opportunità di crescita attraverso un percorso di trasformazione e di cambiamento più profondo che non toglie lavoro dall’Italia per spostarlo in posti dove costa meno.

Per ottenere il digitale dentro la Pmi, però, occorrono capitale, investimenti in ricerca e nelle competenze. Il cloud e la penetrazione delle tecnologie nella vita quotidiana danno la possibilità di ridurre i costi per raggiungere questi risultati. Nuovi settori dell’economia (come il green), parzialmente incentivati, aprono possibilità ulteriori. E inoltre nei prossimi cinque anni è disponibile una ingente massa di capitali da parte della Ue, se si sa come accedervi: dal piano Erasmus Plus con 15 miliardi per la mobilità di ricercatori, imprenditori e studenti, a EaSI con 920 milioni per occupazione e innovazione sociale. Ancora, c’è il Cosme con 2,5 miliardi per incrementare la competitività delle Pmi sui mercati incoraggiando anche la cultura imprenditoriale. E infine Horizon 2020, con 80 miliardi per finanziare ricerca e innovazione anche nelle Pmi.

In tutto questo, il ruolo del digitale è fondamentale, ad esempio nel ridisegnare i processi. Come dice a CorCom Luca Morazzi, country manager content solutions business Italia di WD: “Siamo ottimisti, vediamo una crescita del settore, stiamo finalmente passando dal cartaceo al digitale. La tecnologia ha fatto grandi passi avanti e gestire una rete per un’azienda con 25-50 postazioni fisse o mobili è una cosa semplice. La dematerializzazione non si può fermare: trasformare i faldoni in documenti digitali è già qualcosa, renderli accessibili in rete a tutti, su pc o su iPad con un Nas in rete, è un altro passo avanti. Per i piccoli questo è davvero il momento giusto per partire e ridisegnare i processi e i flussi, intanto che dematerializzano”.

Il frutto della tecnologia funziona per l’organizzazione dei processi e dei flussi di lavoro oltre che per le modalità di produzione, di approccio ai mercati e di tipologie di beni e servizi realizzati. Tecnologie come i Big data danno la possibilità di andare sul mercato con approcci e consapevolezze nuovi. Il cloud abbatte i costi della dotazione tecnologica, spostando inoltre il costo delle risorse informatiche dalle spese di capitale alle spese operative: operare un sistema di big data non richiede investimenti in centri di calcolo ma l’abbonamento a un servizio di platform-as-a-service.

Con il fiore profumato dell’innovazione però arrivano anche le spine, che possono pungere in modo doloroso: “Informazioni rivendibili sui nostri sistemi – dice David Gubiani, direttore tecnico di Check Point Italia – ne abbiamo tutti. Ma la Pmi è molto appetibile perché non ha un team di persone dedicate alla sicurezza e non utilizza dotazioni informatiche omogenee. Le grandi imprese hanno più valore da rubare in digitale ma sono più protette. Inoltre, quando si va a fare un controllo, ci accorgiamo di cose che il cliente non sa: violazioni delle quali non si è mai accorto. L’obiettivo è la consapevolezza, culturale non tecnologico”.

Il bisogno della sicurezza informatica non è un tema di secondo piano perché tutto ruota, nello sviluppo delle strategie future delle Pmi, attorno all’utilizzo più o meno intensivo delle tecnologie. Essere esposti ai rischi degli attacchi, violazioni, interruzioni di servizio o anche semplicemente vedersi utilizzare come piattaforma inconsapevole per attacchi a terzi (con tutti i rischi legali che questo tuttavia comporta) è concreto.

Eppure, bisogna trovare una sintesi perché il digitale non è evitabile: “È anche una questione di generazioni – dice Cesare Radaelli, channel manager di Fortinet – perché oggi chi ha dai 40 anni in giù ha una sensibilità maggiore e fa aumentare la cultura degli investimenti nel digitale anche nelle Pmi”. Non vive, insomma, la tecnologia con sospetto o come un fattore di complessificazione da subire, bensì come una opportunità naturale.

Qui entra uno snodo fondamentale del digitale: investimenti in sicurezza, cloud, big data, utilizzo degli apparecchi in mobilità anche dei dipendenti con il Byod (Bring your own device). Come governare tutte queste nuove complessità che la Pmi deve affrontare? “Non possiamo chiedere alla Pmi – dice Radaelli – di fare investimenti enormi su tecnologie che poi devono anche gestire. In buona parte delle offerte, da parte degli operatori telefonici o degli integratori locali, c’è sempre più spazio per i servizi gestiti”. Connettività, sicurezza, cloud adesso sono davvero alla portata di molti. E le competenze, ovviamente.

Dove cercare chi è in grado di affiancare i “vecchi” dell’azienda (fondamentali in quanto portatori del saper fare) per trovare nuove soluzioni organizzative, produttive o distributive che siano basate sul digitale? Assumendo giovani, cioè cercando tra gli under 25 chi abbia talento e capacità in ambiti sinora ignoti alla Pmi tradizionale. Dopotutto, è dall’ibridazione di culture e saperi diversi che il tessuto imprenditoriale italiano ha sempre saputo generare valore. Perché non dovrebbe essere così anche questa volta?

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