Reimsbach-Kounatze: “Big data, innovazione e crescita l’Italia è solo a metà strada”

L’economista e curatore dello studio Osce su “Data-driven innovation”: “Il vostro paese investe ancora poco in asset intangibili, ma è particolarmente attento alle Pmi. Il piano per l’ultrabroadband darà la necessaria infrastruttura, che però da sola non basta. Servono più dati”

Pubblicato il 26 Ott 2015

Patrizia Licata

christian-reimsbach-kounatze-151021162611

I Big data e la loro relazione con innovazione e crescita: ne parliamo con Christian Reimsbach-Kounatze, economista ed analista politico dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, curatore dello studio Ocse su “Data-driven innovation: big data for growth and well-being”.

Che cosa intende per Data-driven innovation (DDI)?

Noi la definiamo come l’uso dei dati e dell’analytics per migliorare o favorire la creazione di nuovi prodotti, processi, metodi organizzativi e mercati. E’ un fenomeno che va visto nel contesto di tre mega-trend delle economie del 21mo secolo basate sulla conoscenza: la diffusione di catene del valore globali, crescenti investimenti in capitale basato sulla conoscenza (Kbc), quegli asset intangibili come dati, software ma anche proprietà intellettuale che sempre più sono traino della crescita, e, non meno importante, la sempre più rapida digitalizzazione dell’economia. Tutto questo forma la DDI.

E l’Italia dove si colloca su questo cammino che porta alla Data-driven innovation?

Diciamo un po’ a metà strada. Per esempio, negli Usa gli investimenti in asset intangibili hanno già superato gli investimenti in asset fisici; l’Italia (come molti altri Paesi) non è ancora a questo punto. E’ però attenta alle politiche per le Pmi, che sono un elemento importante della data-driven innovation, e noi vediamo che una vasta porzione delle Pmi in Italia già usano importanti tecnologie che abilitano la Ddi come il cloud computing, anche se esistono ancora forti barriere all’adozione della Ddi in Italia, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità di competenze nel settore dati: gli specialisti sono pochi.

Perché lei insiste sull’importanza dei brevetti nella IoT e nell’analisi dei Big data?

Perché secondo noi la Internet delle cose sarà il prossimo grande driver della Ddi visto che porterà l’innovazione digitale nell’intera economia, anche nei settori diversi dall’Ict. L’economia digitale già oggi non riguarda solo le aziende hitech o le Internet companies, ma tocca tutti i settori, trasversalmente, anche quelli che tradizionalmente non consideriamo interessati dalle tecnologie, come l’agricoltura. I Paesi che hanno le tecnologie chiave per l’economia dei dati si garantiranno il vantaggio del “first mover”. L’Europa possedeva questa leadership ma l’ha persa: il nostro continente era numero uno al mondo nei brevetti per la IoT nel 2005-2007, ma dal 2010 è stata scalzata dagli StatiUniti e soprattutto dall’Asia (Sud Corea, Giappone e Cina). Questo potrebbe portare a predominio tecnologico e, di conseguenza, anche, potenzialmente, a uno spostamento del potere economico. La buona notizia è che molti Paesi, anche in Europa, stanno sostenendo gli investimenti in Iot, Big data analytics, e super computing attraverso le loro Agende digitali nazionali o strategie nazionali per l’economia digitale. Il Canada per esempio prevede investimenti del valore di 15 milioni di dollari canadesi nei prossimi tre anni per sostenere la ricerca e la commercializzazione nel settore del quantum computing, la Francia inestirà 150 milioni di euro per sostenere l’R&D in vinque tecnologie strategiche (IoT, super e cloud computing, big data analytics, security), la Digital Agenda 2014-17 della Germani prevede la promozione di supercomputing, security e big data analytics, quest’ultima soprattutto com due centri di competenze nei Big data.

La Commissione europea nella sua strategia per il Digital single market mira ad abbattere le barriere nel flusso di dati tra nazionali. Sta dunque andando nella giusta direzione per favorire la DDI?

Sicuramente la Commissione europea ha preso atto delle sfide in atto e cerca di affrontarle. Garantire un flusso di dati transnazionale è fondamentale. Trovo anche che integrare nella nuova Direttiva sulla Privacy la data portability sia un importante passo in avanti perché qui la Commissione considera la possibilità per l’utente di partecipare in modo più attivo alla data-driven economy assumendo maggiore controllo sui suoi dati personali.

C’è ancora molto lavoro da fare sulle questioni regolatorie oltre la privacy, per esempio la concorrenza dove suggerirei vivamente una più stretta collaborazione tra le autorità di data protection, quelle che proteggono i consumatori e quelle che vigilano sulla concorrenza perché, tanto per fare un esempio, comportamenti e merger anti-competitivi sono spesso valutati sulla base del detrimento per i consumatori o la riduzione dei vantaggi per i consumatori che provocano, ma, nel particolare caso in cui i servizi data-driven sono ‘gratuiti’ in cambio dei dati personali, i danni alla privacy non sono ancora completamenti compresi dalle autorità sulla concorrenza, che tendono a indirizzare le questioni di privacy solo al Garante privacy, il quale, però, non ha autorità sui temi dell concorrenza.

Occorrono più regole?

Occorrono regole, ma attenzione a non perdere di vista il necessario equilibrio tra esigenze dei privati e esigenze delle imprese, che sono quelle che creano valore nella data-driven economy. L’equilibrio potrebbe essre: garantire che si creino benefici per tutta la società, o almeno larghe fette di essa, ma assicurarsi anche che le informazioni riservate o sensibili siano protette, inclusi i dati personali e i segreti industriali. Inoltre, favorire l’innovazione non deve sfociare in misure protezionistiche: l’economia mondiale è interdipendente. Ciò non toglie che i governi possono fare di più per investire nell’economia dei dati e promuovere lo sviluppo del proprio Paese.

L’Italia ha un importante piano sulla banda ultra-larga. E’ sufficiente?

Il piano per l’ultra-broadband sicuramente darà la necessaria infrastruttura ma non bisogna dimenticare che l’infrastruttura della digital economy non è fatta solo di reti broadband ma anche di dati. Comunque vedo che in Italia si lavora anche su Smart cities e altre iniziative. Ma fornire l’infrastruttura non è sufficiente, soprattutto se l’utilizzo resta basso. Le politiche per incoraggiare l’adozione e l’uso di queste infrastrutture sono altrettanto necessarie che le politiche sul lato offerta.

Temi dove l’Italia potrebbe fare di più sono in particolare: politiche per favorire l’adozione delle Ict in tutti i settori dell’economia con un focus sempre sulle imprese medio-piccole, e lo sviluppo di competenze nell’Ict, inclusi gli specialisti dei dati.

Lo skill shortage nell’analisi dei dati però non riguarda solo l’Italia.

No, è un fenomeno globale e tutti i Paesi dovranno attrezzarsi. I data scientist sono richiesti ma ancora troppo pochi. Eppure l’economia dei dati ha bisogno di chi sa trattare, analizzare, interpretare e usare i dati: è l’analisi che abilita la crezione di valore tramite i dati. Occorre anche ricordare che l’economia digitale modifica il mondo del lavoro: un numero crescente di mansioni possono essere automatizzate, ma ci sono anche nuovi lavori non automatizzabili e fortemente richiesti come quelli nell’analisi dei dati e della risoluzione di problemi non strutturati. In ogni caso, occorreranno nuove competenze che complementano le tecnologie, nuove o già esistenti. Oggi la maggior parte degli specialisti dei dati si trova in Lussemburgo e, a seguire, in Olanda, Usa, Estonia, Australia, Svezia; Paesi importanti come Italia, Spagna e Francia sono carenti. Si tratta di un’opportunità mancata nella creazione di posti di lavoro.

Insomma, dalla privacy allo skill shortage agli investimenti, bisogna darsi parecchio da fare per affrontare quella che lei ha definito la “creative destruction” portata dalla data-driven innovation. Come vincere la sfida?

Io ho individuato quattro elementi: cambiamenti strutturali sul mercato del lavoro; adeguamento delle competenze; modifiche organizzative; capacità imprenditoriali. E’ così che si esce dallo status quo che frena l’innovazione, quello in cui mancano le competenze, non c’è propensione all’impresa e al rischio, i sistemi restano inerti e uguali a se stessi e non si investe abbastanza nel cambiamento. Invece è ora che i governi adottino un approccio complessivo e strategico che faccia leva sui dati come la “nuova R&D” dei sistemi innovativi.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!