IL CONVEGNO

Smart city, tanti progetti e poca concretezza: colpa del breve periodo

È questo uno dei messaggi principali emersi dal confronto fra esperti organizzato da Cisco e dal Digital Transformation Institute, andato in scena alla Camera dei Deputati. Tra gli ostacoli anche l’assenza di approcci multidisciplinari, la scarsità di competenze e il mancato coinvolgimento dei cittadini

Pubblicato il 21 Giu 2017

Andrea Frollà

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Il ruolo fondamentale della cittadinanza, il peso schiacciante di norme datate, la tecnologia come fattore abilitante e non come punto di partenza, l’importanza degli orizzonti di medio-lungo termine e le sfide che attendono gli amministratori locali. Sono questi i temi che anno animato il confronto fra esperti di trasformazione digitale, urbanistica, sociologia e amministrazione pubblica andato in scena alla Camera dei deputati, organizzato da Cisco e dal Digital Transformation Institute (Dti).

L’evento è stato l’occasione per presentare la ricerca realizzata dal colosso Usa e dall’istituto di ricerca specializzato in economia digitale, da cui è emersa la necessità di abbandonare la logica delle best practice per partire invece dagli errori commessi. Il report disegna l’importanza di un modello di smart city “interscalare” dominata dal continuo dialogo fra pubblico e privato, sviluppata in modo flessibile con un adeguato budget per le iniziative di innovazione tecnologica, territoriale e sociale. E che faccia del cittadino un soggetto attivo e consapevole dei benefici.

Su questi punti si sono confrontati Antonio Palmieri, onorevole di Forza Italia particolarmente sensibile ai temi dell’innovazione digitale, Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute, Fabio Florio, Business Development Manager Smart City e Country Digitization Leader di Cisco Italia e responsabile del piano Digitaliani, Maurizio Carta, co-fondatore del Dti e professore ordinario di Urbanistica, e Alberto Marinelli, anche lui co-fondatore del Dti e docente ordinario di sociologia dei media.

“È necessario riorientare le politiche e la sensibilità delle persone – ha esordito l’onorevole Palmieri aprendo i lavori -. Essendo la trasformazione culturale, ancor prima che tecnologica, è nella consapevolezza di tutti gli attori in gioco che risiede la possibilità di costruire modelli innovativi, che devono far leva sull’unione multidisciplinare. Mancano spesso nei programmi elettorali delle progettualità ad hoc sulle città digitali: abbiamo bisogno di approcci sistemici”.

La digital transformation, ha sottolineato il presidente del Dti Epifani aprendo il suo intervento, “cambia declinazione in ogni settore e coinvolge persone, società e business con tempi e intensità differenti. Per questo motivo bisogna utilizzare un approccio multidisciplinare, partendo dall’attitudine a fare tutti un passo indietro per farne insieme due in avanti”. L’istituto di ricerca, ha spiegato Epifani, “nasce con l’obiettivo di creare una piattaforma di discussione e questa seconda nostra ricerca parte da una domanda semplice: dove sono le smart city? Osserviamo uno sviluppo, a cui manca tuttavia una progettualità di insieme. Le best practice sono importanti perché insegnano cosa fare, ma siamo sicuri che bisogna partire dagli esempi migliori per capire cosa fare?”.

La risposta dell’esperto è secca: “Noi crediamo che sia meglio partire dagli errori, facendo analisi dei rischi. Anche perché ogni progetto, e quindi pure ogni best practice, è irreplicabile. Quindi è più utile comprendere quali siano le dinamiche di abbattimento del rischio, altrimenti continuerà a dominare la logica dei cluster e dei silos che impedisce lo sviluppo. Il successo dipende infatti dai punti di contatto fra le varie dimensioni”. Secondo Epifano servono oggi “cornici di senso e soprattutto programmi d’azione. Le smart city falliscono infatti quando vengono concepite come progetti e non come obiettivi di un programma concreto. Senza politica questo passaggio non può avvenire perché è l’idea che regge le città smart. L’errore più comune è la mancanza condivisione di pensiero politico. E anche lo storytelling è importante”.

Partire dagli errori è più utile anche secondo Florio, responsabile del piano Digitaliani di Cisco Italia, che ha ricordato come di smart city si parli da molto tempo. “Bisogna capire cosa finora non ha funzionato e continua a non funzionare. Serve però un cambiamento importante dal punto vista culturale, che preveda il coinvolgimento dei cittadini, che devono essere parte integrante e attivi. La grande sfida è ridurre i costi migliorando la qualità dei servizi. Non è facile – ha ammesso Florio – ma deve essere l’obiettivo di tutti. Quello di smart city è concetto abusato: meglio parlare di servizi digitali al cittadino. Esiste naturalmente un tema economico importante e su questo serve una forte collaborazione pubblico-privato. La tecnologia è uno strumento che aiuta, ma non può essere il punto di partenza che deve invece riguardare i processi e le persone”.

Gestire le città significa affrontare una grande complessità, soprattutto nel caso delle città metropolitane. Ecco perché, ha spiegato Florio, “ci vogliono pazienza e orizzonti temporali di medio-lungo, cioè pensare in una logica di 5-10 anni. Senza però sprecare il tempo a disposizione. Le tecnologie ci sono: vanno scaricate a terra per integrate nei servizi. Non bisogna dimenticare infine l’importante lacuna importante di competenze ed esperienza che è fondamentale colmare in tempi brevi”.

La complessità è stato un concetto toccato anche dal co-fondatore del Dti, Alberto Marinelli: “Dobbiamo avere l’ambizione di tenere sotto controllo la complessità trattando dati e automatizzando i processi. Questa è una priorità che aiuta a gestire gli orizzonti temporali – ha sottolineato il professore -. C’è una sfasatura fra la rivendicazione dei bisogni e i processi decisionali che è fondamentale raccontare. Dialogo, discorso, trasparenza e interoperabilità sono concetti essenziali per dare concretezza ai progetti”. Secondo Marinelli è importante “valorizzare la partecipazione e le intelligenze distribuite perché serve un salto di qualità sostanziale” e c’è bisogno “anche di storytelling, che viene spesso maltrattato ma può fungere come arma di attrazione della sensibilità su questi temi. L’obiettivo maestro è far sì che la complessità trovi le sue soluzioni”.

Contro l’idea “classica” di smart city si è schierato anche l’altro co-fondatore dell’istituto, Maurizio Carta, che ha portato nella sala stampa della Camera la prospettiva di un esperto di urbanistica: “Dobbiamo discutere di città aumentata, che è un concetto più abilitante. Passare cioè da una città che somma strati di tecnologia a una città interamente innovativa. Siamo l’unica nazione al mondo che progetta le città con strumenti regolativi figli del 1942, che per ovvi motivi non tengono in considerazione il ruolo di Internet e della trasformazione digitale in atto”.

Innanzitutto, ha avvertito Carta, è fondamentale prima “capire come agire in ogni segmento, dalla tecnologia alle norme” e poi “impegnarsi a gestire il passaggio paradigmatico da una visione in cui elenchiamo buone pratiche e flagelliamo i fallimenti a una con cui gestione questo scenario”. Ciò di cui l’urbanistica ha più bisogno oggi, ha concluso Carta, è il passaggio “da una smart city come locuzione a una comunità vera”.

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