DIGITAL TAX

Trovato (Ibl): “Niente tasse per Google & Co.”

L’economista dell’Istituto Bruno Leoni boccia la digital tax: “Il governo pensi a come incentivare gli investimenti delle web company invece che studiare meccanismi estorsivi. Serve più concorrenza fiscale tra gli stati”

Pubblicato il 22 Set 2015

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“In Italia il governo non deve trovare meccanismi di tassazione per Google & co, dovrebbe piuttosto impegnarsi a rendere più conveniente investire in Italia”. Massimiliano Trovato, fellow dell’Istituto Bruno Leoni, ribalta la prospettiva del dibattito sulla digital tax.

Trovato dice che il governo sta perdendo tempo a lavorare alla digital tax in un momento in cui anche altri Paesi Ue si stanno muovendo su questo fronte? Penso alla misura che George Osborne ha preso in Gran Bretagna, ad esempio, proprio per porre fine al fenomeno dell’elusione fiscale…

Onestamente io faccio fatica a vedere questo problema di elusione fiscale. Quello che rilevo – e sul quale bisognerebbe lavorare – è una evidente obsolescenza delle regole: c’è un sistema fiscale non adeguato all’economia digitale. Ad oggi il paradigma fiscale dominante impone di pagare le tasse laddove si produce oppure dove sono i dipendenti non tenendo conto che un prodotto digitale – tanto per fare un esempio – viene sviluppato negli Usa, venduto in Lussemburgo e acquistato in Italia. E’ evidente che le norme attuali non sono al passo coi tempi.

Quindi niente tasse per le web company?

Niente tasse sul modello di un mondo che non c’è più, ma soprattutto più impegno per disegnare un contesto che metta le aziende in condizioni di investire nel nostro Paese.

C’è un modo?

C’è e si chiama concorrenza fiscale. Gli stati più grandi, tendenzialmente più propensi a tassare in maniera massiccia, dovrebbero tenere le aliquote più basse per attrarre le aziende straniere, prime fra tutte quelle del digitale. Inoltre si rispetterebbe appieno il principio secondo cui un’azienda deve decidere liberamente stabilire la propria sede laddove si rilevino condizioni, fiscali e non, adeguate alle sue esigenze.

Però anche in Gran Bretagna, dove c’è storicamente molta attenzione a non opprimere fiscalmente le imprese, si è adottata una misura di tassazione per le web company. Perché l’Italia non dovrebbe farlo?

A Londra si tassano i profitti, non i ricavi come sembra voler fare il governo italiano.

Cosa non la convince del digital tax a cui sta lavorando il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti?

La proposta Zanetti prende di mira i ricavi, ma i ricavi non sono espressione della capacità contributiva di un’azienda. Ecco perché un’imposizione sui ricavi non si è mai sentita in nessun paese. Facciamo un esempio: consideriamo, ipoteticamente, che per un’impresa digitale il 50% dei ricavi siano profitto, ma un’aliquota del 25% sui ricavi equivarrebbe al 50% tassazione sui profitti. Cosa molto più simile a un meccanismo estorsivo piuttosto che a una misura di giustizia fiscale , come sento dire da più parti nel governo.

Addirittura una misura estorsiva? Perché?

Perché equivale a dire alle web company: o insediate in Italia una “stabile” oppure noi i soldi li prendiamo comunque.

Ma anche l’Ocse chiede di far pagare le tasse nei luoghi dove vengono generate…

Anche su questo ho forti perplessità. Detto ciò, la misura rischia anche di essere protagonista di un contenzioso dato che verrebbe a scontrarsi con gli accordi bilaterali tra gli stati sulla doppia imposizione fiscale. Va ricordato che i trattati internazionali prevalgono sulle leggi nazionali.

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