LA SENTENZA

Uber, abbiamo proprio fatto un figurone

L’Italia mette i lacciuoli all’applicazione. Ma siamo sicuri di aver fatto la cosa giusta per lo sviluppo della concorrenza e dei servizi innovativi?

Pubblicato il 05 Giu 2015

Piero Laporta

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L’associazione “pizzaioli napoletani veraci” ha citato in giudizio la catena “pizza a casa” perché la consegna della pizza a domicilio costituisce una adulterazione della pizza tradizionale, che va gustata sul posto. Tale adulterazione costituisce anche concorrenza sleale. Per questo i pizzaioli napoletani hanno ottenuto dal giudice l’inibizione su tutto il territorio nazionale della consegna della pizza a domicilio. È uno scherzo, ma una notizia analoga, quella sulla sentenza anti-Uber non lo è. La sentenza ha dato un catastrofico tempo di arresto alle politiche per l’innovazione e la concorrenza. E non a caso cade nel paese tecnologicamente fra i più arretrati del G20, l’Italia.

Troppi i decisori statali incapaci di comprendere che la tecnologia cambia il mondo ed è inutile e dannoso opporsi. Tempo addietro un tribunale del nord ha rifiutato il sequestro degli archivi clienti di un’agenzia di viaggio, che li aveva ottenuti fraudolentemente. Motivazione? Sono beni immateriali, dunque non sequestrabili. Se il giudice avesse chiesto un parere al nipotino dodicenne che smanetta sull’iPad ne avrebbe avuto lumi.

Ulteriore pregiudizio affiorante dalla sentenza anti-Uber: ogni attività imprenditoriale innovativa sottrarrebbe risorse alle preesistenti.

Non si comprende che la tecnologia amplia l’offerta di servizi, abbassa i prezzi e obbliga a migliorare le prestazioni. Concetti difficili da digerire se non sai come funziona una app, non spiccichi una parola d’inglese e, soprattutto, se non hai necessità del trasporto pubblico perché ti scarrozzano da casa al lavoro con l’auto di servizio.

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