IL FOCUS

Via al lavoro “agile”, sarà la chiave per svecchiare la PA?

In un ddl collegato alla Legge di Stabilità la cornice di riferimento per lo smart working tricolore. Già operative molte multinazionali, ma la sfida più complessa riguarderà i dipendenti pubblici

Pubblicato il 06 Nov 2015

Mila Fiordalisi

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Lavoro “agile”. Si chiamerà così lo smart working all’italiana a cui lavora il governo Renzi.

Dopo la proposta di legge (di gennaio 2014) sul telelavoro – d’iniziativa dei deputati Mosca, Ascani, Saltamartini, Tinagli, Bonafè e Morassut – finita nel dimenticatoio ma soprattutto bypassata dalle innovazioni introdotte dallo smart working – che per l’appunto non si limita al mero lavoro da casa – l’esecutivo ci riprova con un ddl collegato alla Legge di Stabilità (predisposto dal professor Maurizio Del Conte) che punta a disegnare la cornice entro cui operare: diritti e doveri del dipendente “smart” – ossia che lavora al di fuori dell’azienda per un tot di giorni a settimana/mese -, modalità di definizione della retribuzione, tutela della privacy e della sicurezza.

Ma la vera chiave di volta è rappresentata dalla gestione degli orari di lavoro. L’orario di lavoro, è questa la vera grande novità alla base dello smart working, sarà “scandito” sulla base degli obiettivi di performance lavorativa a cui sarà chiamato a rispondere il dipendente, spesso in team con i colleghi, e non più sulla logica del cartellino da timbrare. Insomma una rivoluzione bella e buona soprattutto in un Paese come l’Italia dove le truffe legate ai furbetti del cartellino sono all’ordine del giorno e dove l’orario di lavoro è “sacro”, spesso oltre le logiche del buon senso. La sfida più interessante, ma anche la più complessa, riguarderà la Pubblica amministrazione: se si punta a una retribuzione e a funzioni solo in parte legate all’orario di lavoro e si vuole virare verso un modello di lavoro votato al conseguimento di obiettivi specifici, c’è da scommettere che i sindacati non staranno a guardare.

E c’è da auspicare che non si sbandieri la ritrita storia dei diritti acquisiti, ma che questa volta si prendano in esame le questioni sul piatto senza pregiudizi di sorta, a tutela del lavoratore ma anche e soprattutto in linea con le evoluzioni di mercato. Le logiche vecchio stampo oggi più che mai mal si adattano alle evoluzioni dettate dalla rivoluzione digitale. Sì, perché lo smart working è figlio legittimo e diretto del digitale: sono le connessioni a Internet sempre più veloci e l’adozione di tablet e smartphone, come strumenti di lavoro tout court, nonché la diffusione di app dedicate a snellire e facilitare un gran numero di operazioni ad aver scardinato e in parte fortemente modificato il mondo del lavoro. L’avvento del co-working, ad esempio, ossia dell’uso di spazi condivisi al di fuori del perimetro dell’azienda, è strettamente connesso con lo smart working al punto da rappresentarne la faccia speculare della medaglia.

E anche nel nostro Paese, checché se ne dica – gap digitale e ritardi vari – lo smart working sta prendendo piede. Emblematico il caso American Express: l’azienda ha scelto Roma per il suo quartier generale continentale in smart working, dove il 90% dei dipendenti lavora già in modalità “intelligente”. E di casi ce ne sono molti altri, trainati perlopiù dalle multinazionali. La proliferazione non regolata nasconde però delle insidie: un quadro di riferimento è necessario, pena il rischio di casistiche “borderline” sull’onda del laissez faire. Ed è per questo che il governo ha deciso di intervenire.

Anche perché i numeri sono al rialzo: il 17% delle grandi imprese italiane ha avviato quest’anno (erano l’8% nel 2014) progetti organici di smart working, introducendo in modo strutturato nuovi strumenti digitali, policy organizzative, comportamenti manageriali e nuovi layout fisici degli spazi. A queste si aggiunge il 14% di grandi imprese che si dichiara intenzionato ad avviare progetti ed un ulteriore 17% che ha avviato iniziative per particolari profili, ruoli o esigenze del personale. Dalla fotografia, scattata dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, si evince dunque che quasi una grande impresa su due sta andando in modo strutturato o informale verso il nuovo approccio all’organizzazione del lavoro.

E secondo una recente ricerca internazionale condotta da Regus, fornitore di spazi di lavoro flessibili, (105 i paesi coinvolti per un totale di 44mila interviste) in Italia il 51% dei manager, dei professionisti e dei cosiddetti “knowledge workers” – in linea con la media mondiale del 52% – lavora già lontano dall’ufficio per almeno metà della settimana (oltre 2,5 giorni).

Ma lo smart working vale per tutti? E come si fa a mettere su un progetto di lavoro “intelligente”? “Per introdurre lo Smart Working in un’organizzazione – spiega Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working del Polimi – è necessario considerare innanzitutto le proprie specificità interne e cercare una coerenza con gli obiettivi e la strategia di business, per poi trovare equilibri che vanno incontro alle esigenze e alle aspirazioni delle persone, sfruttando al meglio le opportunità dei nuovi strumenti digitali”. Secondo Crespi servono la condivisione dei lavoratori rispetto a strategia, valori, obiettivi e performance, un nuovo approccio dei manager, “da “controllori” a leader degli obiettivi”, il supporto alle persone per decidere autonomamente le modalità con cui svolgere le proprie attività. “Le organizzazioni che hanno intrapreso questo cammino sono sempre di più, ma non esiste un’unica ricetta per tutti – evidenzia il direttore dell’Osservatorio -. Il percorso deve considerare i reali obiettivi e i diversi punti di partenza”.

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