IL DIBATTITO

Web tax, l’Europa verso l’equalisation levy?

Nulla di deciso all’Ecofin di Tallin sulle modalità di tassazione delle multinazionali. Ma sia la Commissione sia gli Stati membri concordano sulla necessità di intervenire. Si guarda alla soluzione indiana: imposta compensativa sui ricavi

Pubblicato il 18 Set 2017

Federica Meta

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Nulla di deciso all’Ecofin di Tallin relativamente alla web tax. Quello che emerso, per la prima volta, è la convinzione comune – nella la maggior parte degli Stati ma anche nella la stessa Commissione Ue – è quella di trovare una soluzione alla tassazione della web company. I ministri delle Finanze UE hanno infatti concordato di “procedere speditamente verso una posizione comune per il meeting di dicembre” a proposito di lotta all’evasione e all’elusione fiscale da parte delle multinazionali del web.

La Commissione europea, da parte sua, “fornirà una comunicazione con diverse opzioni su come affrontare questa questione, prima del digital summit in cui si discuterà di nuovo allo scopo di consentire di arrivare a una qualche conclusione all’Ecofin di dicembre per stabilire una direzione”, ha riferito il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis al termine dei lavori.

Per una proposta concreta si dovrà attendere invece la prossima primavera, quindi metà 2018. Dombrovskis ha precisato che la soluzione preferita è un accordo a 28, per una serie di elementi tra cui quello di preservare il mercato unico.

Tuttavia il cammino verso una soluzione condivisa non è così scontato: come noto, le politiche fiscali variano di Paese in Paese e tra alcuni Ministri delle Finanze le opinioni sono divergenti.

Ad ogni modo, se non ci fosse unanimità, un blocco di Paesi capofila potrebbe procedere autonomamente e la proposta elaborata dai quattro big dell’Area Euro – Francia, Germania, Italia e Spagna – ha già totalizzato circa una decina di nazioni che l’appoggiano.

Ma quali sono le proposte sul tavolo? A Tallin dieci ministri hanno firmato una proposta che prevede una web tax da applicare ai fatturati delle compagnie digitali, e non più ai loro utili. Tra i firmatari: Francia, Italia, Germania e Spagna, Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania. Nella dichiarazione si sottolinea come gli Stati non possano più “accettare che queste società facciano business in Europa pagando tasse minime”, perché “in gioco c’è l’efficienza economica, così come l’equità e la sovranità fiscale”.

La proposta non ha incontrato l’unanimità: non è condivisa, ad esempio, dall’Estonia, attualmente presiedente di turno del Consiglio dell’Unione europea, che punta invece a una tassazione sul numero dei clienti registrati in ogni singolo Paese.

Secondo un rapporto del Parlamento europeo, i 28 Paesi dell’Unione hanno perso gettito fiscale per 5,4 miliardi di euro tra il 2013 e il 2015 per mancati versamenti da parte di Google e Facebook. Per la sola Italia la perdita stimata è di 549 milioni nel triennio.

La web tax rappresenta per l’Europa una doppia sfida: trovare un consenso a livello comunitario ma anche con gli Stati Uniti che possono giudicare – anche se i rapporti tra il presidente Trump e la Silicon Valley non sono dei migliori – le manovre sulla fiscalità come un ostacolo alla crescita economica d’Oltreoceano.

Sul fronte interno Irlanda, Malta e Lussemburgo preferirebbero una soluzione a livello globale e non un’iniziativa soltanto europea. Perciò l’Unione dovrà convincere le superpotenze al di fuori del vecchio continente al prossimo tavolo del G20, e ragionare sulla tassa. “Bisogna coinvolgere Usa e Cina al prossimo G20- ha esortato a margine dell’Ecofin il Ministro maltese Edward Scicluna – dobbiamo stare attenti a non tassare in Europa, poiché se scattassero i rincari per i consumatori, questi andrebbero a cercare servizi e prodotti in Cina”.

L’economia digitale, dal 10% del Pil dell’area Ue, passerà tra un decennio al 30% o 40% per cento. Il gettito a rischio è molto alto e potrebbe avere conseguenze rilevanti sulla sostenibilità dei conti pubblici.

In questo senso, inizia ad aumentare l’interesse per la soluzione indiana. L’India ha introdotto il cosiddetto equalization levy , cioè un’imposta compensativa sui ricavi delle imprese che non hanno una presenza economica significativa (digitale) nei vari Paesi. Una imposta digitale che fa affidamento su una misurazione fisica dei contenuti digitali delle varie attività economiche. Potrebbe essere una soluzione di passaggio, in attesa di trovarne una definitiva.

Per il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, in fatto di trattamento fiscale dei colossi hitech che operano in Italia “il futuro è già passato” e la web tax di cui si sta lavorando a livello di Unione europea è solo un “tentativo di recuperare terreno rispetto a un mondo che già cambiato”. “Non ci rendiamo conto dei profitti accumulati da questi gruppi in Paesi con un livello di tassazione vantaggioso e dei costi che gli Stati dovranno affrontare per gli effetti sull’occupazione della fine del terziario avanzato- spiega Greco – “Se non andiamo a prendere una parte dei profitti di questo mondo nuovo non so dove gli Stati andranno a prendere le risorse.

Secondo Greco gli Stati hanno tre problemi “da affrontare con una certa urgenza”: ridefinire gli antitrust che sono a suo parere l’unico strumento che hanno per difendersi da questi “monopoli mondiali più potenti degli Stati stessi”, tassare i loro profitti per redistribuirne una parte, tutelare la privacy. Una delle strade percorribili, ha concluso, è quella della “Bit tax”, cioè una forma di tassazione delle banche dati dei gruppi hitech “che fanno impallidire quelle dei servizi”.

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