L'ANALISI

Industria 4.0, la disoccupazione fa paura: formazione continua il rimedio

La quarta rivoluzione industriale rischia di creare una netta divisione nel mercato del lavoro: i privilegiati e i precari. Fioccano perciò le proposte per attenuarne gli effetti. Ma conviene concentrarsi su misure attive di prevenzione o compensazione. L’analisi di Francesco Daveri

Pubblicato il 22 Set 2017

Francesco Daveri*

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Sta arrivando – a tutta velocità e con effetti sistemici – la quarta rivoluzione industriale. Si tratta di applicazioni dell’intelligenza artificiale e della robotica che mettono in dubbio le tradizionali linee di confine fisiche, digitali e biologiche tra uomo e macchina. Grazie alle nuove tecnologie, la vita quotidiana di tutti viene resa più semplice. Si può chiamare un taxi, prenotare un volo, comprare un prodotto, fare un pagamento, ascoltare la musica in remoto, ottenendo un servizio personalizzato. Un grande vantaggio rispetto a prima. Ma i benefici di tutto ciò rischiano di essere concentrati nelle mani di pochi: innovatori, azionisti, investitori. E anche il mercato del lavoro potrebbe essere diviso in due segmenti, forse non comunicanti. Da un lato, i precari: lavori e lavoratori con basse qualifiche e bassi stipendi. Dall’altro lato, i privilegiati: lavori e lavoratori con qualifiche elevate e stipendi corrispondentemente elevati.

Secondo il premio Nobel Michael Spence e l’ex capo economista di Barack Obama Laura Tyson, il rischio concreto è che la quarta rivoluzione industriale accoppiata con la globalizzazione metta il turbo a disuguaglianze già molto elevate. La concorrenza sui mercati digitali premia il più bravo nel fornire un servizio molto più che in passato e ciò si traduce in un netto aumento della concentrazione industriale settore per settore. Ma l’aumento delle disuguaglianze si alimenta in modo cruciale della globalizzazione. Le aziende vincenti sono quelle che hanno perfezionato i modi di delocalizzare, monitorare e coordinare la produzione in varie parti del mondo così da ridurre i costi del lavoro, gestionali e di approvvigionamento delle materie prime. Rischia di spezzarsi il processo di distruzione creativa tipico delle rivoluzioni tecnologiche precedenti: la creazione dei nuovi posti di lavoro che rimpiazzino quelli cancellati stavolta tarda o rischia di avvenire in altri paesi, demograficamente o istituzionalmente meglio posizionati.

In un recente studio, il McKinsey Global Institute ha analizzato gli effetti dell’automazione sul lavoro per 46 paesi e per lavori che coprono l’80 per cento della forza lavoro globale. La ricerca si è servita di una rigorosa metodologia di stima del potenziale di automazione dei lavori sulla base delle tecnologie già oggi conosciute (dunque senza fare congetture difficili da giustificare sui futuri trend tecnologici). I risultati ottenuti derivano da una accurata classificazione dei lavori in attività elementari (in tutto duemila) e competenze, di cui sotto viene riportato un esempio relativo a un lavoro particolare, quello del venditore al dettaglio.

Un primo risultato dello studio McKinsey è che la frazione dei lavori interamente automatizzabili sarebbe solo una piccola parte del totale: meno del 5 per cento.

Lo studio però contiene anche un secondo risultato, molto meno rassicurante: secondo i calcoli della società di consulenza, il 60 per cento delle occupazioni è costituito da attività che sarebbero almeno parzialmente automatizzabili (per il 30 per cento o più). Nello specifico, sarà più facile affidare a una macchina attività ripetitive e operative che avvengono in contesti caratterizzati da limitata incertezza. Esempi? I servizi di accoglienza, la raccolta di prodotti agricoli, le attività manifatturiere in generale, ma anche le attività di back-office nel commercio al dettaglio e all’ingrosso. Sarà invece più complicato automatizzare attività che richiedono interazione umana e sociale come i servizi di assistenza sanitaria, di istruzione, il management e altre professioni che comportano una sofisticata elaborazione delle informazioni. Tra queste, la politica.

Non è dunque strano che si discuta su cosa fare per attenuare il probabile impatto negativo dell’automazione sul lavoro. Bill Gates ha proposto di tassare i robot. Una proposta suicida per un paese cronicamente arretrato nell’innovazione tecnologica come l’Italia. Il reddito di cittadinanza – una misura con elevati costi per il bilancio pubblico – sarebbe un’assicurazione sociale anche contro gli effetti incerti dell’automazione. Forse più praticabili sono misure attive di prevenzione o compensazione, come programmi di formazione permanente, prestiti a lungo termine a fini di riqualificazione professionale e programmi di assicurazione sui salari. Misure come queste sono già in atto da molti anni negli Stati Uniti dove l’Ataa (Alternative Trade Adjustment Assistance for Older Workers) prevede un’integrazione di stipendio per lavoratori con più di 50 ann e, redditi inferiori ai 50mila dollari che perdono il lavoro e lo recuperano entro sei mesi. L’integrazione sarebbe pari a metà della differenza tra il vecchio e il nuovo stipendio, con un tetto di 10mila dollari. Invece di tassare l’innovazione o trasformarci in un mondo di persone che vivono di sussidi, meglio aiutare i lavoratori a rimanere tali insieme con i robot.

*questo articolo è pubblicato su lavoce.info

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